Attilio Del Giudice
Una novella inedita

La giostra e il pernacchio

«Giacomino, oddio quanti ricordi! Era un tipo matto, imprevedibile, specialista in pernacchie quasi artistiche, di lunga durata e di incredibile sonorità rivolte, stando nascosto, a personaggi importanti della città»

Papà, papà, dai, portaci ai cavallucci!

I cavallucci per i miei figli, Chiara di quasi quattro anni ed Adriano di cinque, sono le giostre. Le giostre nella nostra città arrivano ogni anno nella seconda quindicina di marzo, quando i mandorli e i peschi sono in fiore, ma fa ancora un freddo boia e non ci consola sapere che l’inverno sta per finire.

Io me ne sarei stato tranquillo in casa, al calduccio, al mio lavoro di traduttore dal tedesco di testi scientifici, lavoro che, peraltro, contempla la variabile “tempo di consegna” con una sua paurosa rigidità contrattuale. Senza contare che il testo da tradurre presenta non poche difficoltà, dovute, soprattutto a una caterva di termini tecnici, sconosciuti a uno come me che, fino a una settimana fa, ignorava perfino l’esistenza della Fisica Subnucleare, argomento dipanato in un libro di ben 420 pagine, che deve essere tradotto entro tre settimane, sempre che non mi arrenda e abbandoni l’impresa e relativa retribuzione, col rischio di essere estromesso da altri incarichi e finire a carte quarantotto.

La mia ex e il suo nuovo compagno hanno prenotato tre notti al Parador di Santiago de Compostela e mi hanno chiesto di tenere i ragazzi nei giorni della loro breve vacanza. Non potevo dire di no e non ho saputo dire di no ai ragazzi che hanno chiesto di venire alle giostre. Ed eccomi qui, infatti.

Loro sembrano felici, hanno snobbato i cavalli e si sono piazzati in una specie di barchetta posta sul dorso di un elefante, che domina per altezza tutti gli altri animali. Ogni volta che la giostra nel giro me li passa davanti, loro mi fanno una pernacchietta e poi ridono a crepapelle.

Dopo un po’, vicino alla mia postazione di spettatore spernacchiato, si è avvicinata una signora bruna con un ragazzetto affetto visibilmente dalla sindrome di Down, anche loro si scompisciano dalle risate. Mi sono rivolto alla signora e ho detto: «Ha visto? I miei figli mi mancano di rispetto». Lei sorridendo ha detto: «Si, ma sono spassosissimi».

Così i miei bambini impertinenti (locuzione in via di estinzione, che mi ricorda mia nonna, specialmente quando parlava di mio fratello, un ragazzo molto vispo e pochissimo incline alla disciplina, che, poi, paradossalmente, in virtù di strane alchimie del Destino, si è fatto prete e pare sia in procinto di diventare vescovo) i miei bambini impertinenti, dicevo, avevano generato allegria in un  ragazzo meno fortunato e in una giovane madre. Un po’ di divertimento, un po’di gioia possono venire da matrici leggere, senza l’impegno di una superba intelligenza comico-satirica e possono confluire negli animi semplici in una sorta di spontanea concordanza (o empatia, vocabolo  in uso e, purtroppo,  in vari abusi).

Finirono entrambi di ridere, ma restarono col sorriso col quale simpaticamente mi salutarono.

Miracolosamente svanirono le mie preoccupazioni per il lavoro. Mi

sentii, come per incanto, contagiato da un’allegria infantile, un’allegria benefica che non provavo da molti anni e mi ricordai di Giacomino, un compagno di scuola alle elementari.  

Giacomino, oddio quanti ricordi! Era un tipo matto, imprevedibile, specialista in pernacchie quasi artistiche, di lunga durata e di incredibile sonorità, rivolte, stando nascosto, a personaggi importanti della città e specialmente al nostro direttore. Il nostro direttore, detto Fascio a causa delle sue propensioni politiche, era un omone grande e grosso, all’ascolto (Giacomino con vocina camuffata, prima di emettere il suo eccellente suono derisorio, lo chiamava: «Direttore, direttorino») diventava paonazzo e col suo vocione tonante, gridava: «Animale! Vigliacco! Fatti vedere se non sei un coniglio! Dove stai? Dove ti nascondi criminale, pezzo di naseabondo escremento umano!».

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