Gloria Piccioni
A cent’anni dalla nascita

Sordi o della comicità

Aspirazioni, modelli, primi e ultimi successi, maestri e colleghi. Un’intervista del 1999 a tutto campo al grande attore che ricordando ci fa ricordare. E ci descrive un’Italia incredibilmente ancora attuale

Un’intervista a Alberto Sordi non ha bisogno di introduzioni e anche in questo caso, a distanza di ventun’anni da quando è stata fatta, mi sembra che non siano necessarie precisazioni o ricalibrature. Questo probabilmente perché Alberto Sordi, come tutti i grandi, rimane stabilmente nel tempo: passato, presente e futuro. Solo una doverosa citazione riguardo alle fonti: fu pubblicata nel 1999 nella serie “Interviste dal XX secolo”, allegate a liberal settimanale.

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La realtà fa ridere

Lei voleva essere un attore ma non necessariamente un attore comico.
Io non possedevo virtuosismi innati o doti fisiche particolari. Avevo sì tanta voglia di esibirmi, ma ero uno normale, uno che si confondeva in mezzo agli altri perché assomigliavo alla gente. In più, all’epoca, per essere attori secondo la tradizione, bisognava aver studiato e saper parlare da attore. Ricordo che la mia insegnante di recitazione, all’Accademia dei Filodrammatici a Milano, mi rimproverava perché parlavo male. «Ma io parlo come parla la gente», le rispondevo. «Ma la gente non è l’attore», insisteva. «La gente guarda l’attore, e quando per strada lo sente parlare, si volta e dice “ma questo è un attore”. Gli attori devono far sentire al pubblico che sono attori, che recitano». E io: «Ma così perdo la mia naturalezza, tutta la spontaneità». «Quella si acquista con la professionalità. Lei, comunque, deve parlare un linguaggio diverso da quello che parla la gente». Ma io, al contrario, cominciando a fare teatro, seppur da dilettante, capivo che dovevo limitare i miei entusiasmi, la frenesia di esibirmi, e sapermi invece rendere più accessibile al pubblico. Poi arrivò il neorealismo…

E fu decisivo anche per lei?
Io non osavo, più di tanto, propormi per la prosa, per il cinema. Senza un curriculum consistente, non era neppure pensabile accedervi. Il neorealismo fu la mia possibilità. Perché mi fornì l’occasione di far venire fuori le mie vere caratteristiche, che altro non erano, appunto, che somigliare alla gente.Vittorio De Sica, che seguiva il mio programma radiofonico, quello con Mario Pio, il compagnuccio della parrocchietta e il Conte Claro, mi chiamò per Mamma mia, che impressione, che sceneggiai insieme a Zavattini e produssi con De Sica. Da lì ebbe inizio tutto, e fu lìche io misi a punto il mio progetto: raccontare quello che succedeva alle persone, andando di pari passo con l’evoluzione del costume.

Niente a che vedere, dunque, con la comicità…
Per me l’essenziale era attenermi alla realtà. Naturalmente adattavo i personaggi alla mia personalità, ma senza voli di fantasia, semplicemente raccontando le cose com’erano, secondo verità. Finiva che certe situazioni facevano ridere, così sono diventate comiche senza che io lo volessi, senza che mi preoccupassi della comicità ma solo di rispecchiare la realtà.

Così, si può dire, senza azzardi, che lei è stato il primo in Italia a capire che la realtà poteva far ridere..
Per esempio, una lite tra moglie e marito appena sposati. La gente si riconosceva in quel litigio, e allora rideva. Ma non era preordinato, non era scritto come un copione comico. Tanto è vero che proprio i copioni rappresentavano un problema. Io portavo al produttore la scenascritta di quel litigio tra marito e moglie, lui la leggeva e mi chiedeva: «Ma fa ridere?». Per me lo scopo non era quello, era, appunto, rappresentare qualcosa in cui la gente poteva riconoscersi. Poi, certo, uno sguardo, un’espressione, il sorriso lo avrebbero strappato. Per questo genere di incomprensioni fui costretto a realizzare in Spagna proprio II marito, perché solo un produttore spagnolo si era ritrovato nella mia storia e aveva dato fiducia al film: tutto ambientato a Roma e tutto girato a Madrid. Insomma, per me la comicità non è mai fine a se stessa.

Dunque le comiche del cinema di quando era ragazzo non la emozionavano particolarmente?
Altroché. Mi facevano molto ridere, ma non erano il modello di quello che io volevo rappresentare se un giorno avessi fatto il cinema. Charlot era una cosa straordinaria, e Chaplin più di altri ha avuto la grandezza e l’intuizione di crearsi un personaggio, dopodiché non ha avuto più bisogno di niente. Perché dovunque lomettessi, in qualsiasi ambientazione, in una nave di emigranti o immerso in un paesaggio, entrava lui, col suo frac, la bombetta e il bastoncino, e il pubblico già era pronto a divertirsi.

E Stanlio e Ollio le piacevano? Lei poi è stato la mitica voce italiana di Oliver Hardy.
Be’, era un accoppiamento talmente straordinario, uno grasso grasso, l’altro magro magro. E poi, come si muovevano… diversamente da quella comicità frenetica e preoccupata solo di far ridere. Pensare che Hollywood li ha condannati, mettendoli a riposo quando vennero fuori Gianni e Pinotto, accoppiata da teatrino parrocchiale, nulla a che spartire con la grandezza, la maestosità di Stanlio e Ollio.

Io, Fellini e gli altri

Ma torniamo a lei. Perché dopo Lo sceicco bianco I vitelloni il suo sodalizio professionale con Federico Fellini si è interrotto?
Perché i sogni di Federico erano troppo lontani dalla mia realtà e non mi avrebbero portato dove volevo. Così le nostre strade si sono divise.

Lei ha preferito perseverare nell’attuazione del suo disegno…
Sì. E dopo II marito, che ebbe grande successo, i produttori italiani cominciarono a darmi fiducia. Per me era fatta. Cominciai a interpretare tutti quei personaggi che poi raccolti insieme mi hanno permesso di fare la Storia di un italiano, la sintesi del mio lavoro, quel programma televisivo che, attraverso spezzoni dei miei film e materiale storico di repertorio, racconta l’italiano medio dall’inizio del secolo ai nostri giorni. Mi ero fermato agli anni Settanta, ma adesso sto aggiungendo quest’ultimo ventennio (nel 1999, ndr) e, senza falsa modestia, credo Cento anni di storia di un italiano sia un affresco destinato a restare ai posteri.

Personaggi ma anche situazioni sociali, spesso anticipando, in modo profetico, alcune realtà. Penso a Tutti dentro del 1984, una Tangentopoli ante litteram, o ad Assolto per aver commesso il fatto, ma anche a tanti film precedenti.
Dopo fidanzati, mariti, scapoli, seduttori, padri, ho prestato attenzione ai fatti, alle istituzioni, tanto per analizzare quello che succedeva in Italia: la guerra, il dopoguerra, le conseguenze del boom economico, la mafia, il divorzio, i medici della mutua, il traffico delle armi, la situazione carceraria, il terrorismo, la giustizia, fino agli anziani d’oggi, che in tempi recenti, anche per ragioni anagrafiche, ho avuto modo di rappresentare nei miei film. Tutto, sempre con ironia, mai con la presunzione del moralizzatore. Solo con l’intenzione di indicare certi fatti, a volte sì, precedendoli un po’, magari perché una minore informazione, soprattutto televisiva, non li aveva ancora svelati.

Mario Monicelli ha detto di lei: «Sordi non va visto come attore, ma anche come autore perché ha inventato un personaggio comico di grande modernità e ha avuto il coraggio di imporlo. Noi registi non abbiamo fatto altro che prenderlo e approfondirlo un po’». Dunque la commedia all’italiana comincia con lei?
Le mie proposte, come dicevo, risalgono al tempo del neorealismo, che io ho realizzato, diversamente da De Sica e Rossellini, in chiave ironica. La commedia all’italiana è successiva di almeno sei, sette anni. Io ho tracciato una strada, poi percorsa da molti: attori e registi. Dopo il successo del Marito, ricevevo moltissime proposte. Arrivavano anche duecento copioni in un anno, e tutti volevano che fossi io a interpretarli. Ma spesso, invece, ero io a indicare i nomi dialtri colleghi, bravissimi attori che ancora non avevano affrontato quel tipo di cinema, ma praticavano una comicità più fine a se stessa, come Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello.

Ha rinunciato a molte proposte?
Ho detto di no persino a Billy Wilder che mi voleva assolutamente in un suo film e non si ca­pacitava del mio rifiuto. Ma che c’entravo io con l’America? Mi ci sarei trovato male. Se le cose che ti circondano non sono legate alla realtà della tua vita, una realtà che conosci da quando sei nato, come puoi raccontarle? Il mio Paese ho anche il diritto di criticarlo, ma una realtà che neppure conosco, no. Posso apprezzarla per un po’, ma poi devo ritornare a casa per poter lavorare.

Quanto ha contato in queste scelte la sua proverbiale pigrizia?
Indolenza, pigrizia. Da un po’ di tempo a questa parte le considero una vera e propria filosofia, uno stile di vita che tiene lontani da tante cose negative, come la competitività, l’essere litigiosi, la poca ragionevolezza. Per me ha contato molto. Ha contato quella romanità generosa di tempo, persino in un’era disumanizzata e ipermotorizzata come la nostra. Ai nostri giorni, in questa città, anche i rapporti umani si sono allentati: oggi ci pensi due volte prima di prendere la macchina per andare a trovare un amico che magari abita lontano da casa tua. E poi finisce che non ci vai. Una volta si attraversava Roma a piedi, si facevano chilometri, e per ammazzare il tempo si discorreva di tutto, si metteva in discussione tutto, pronti ad accettare le cose che ci piacevano e a rifiutarne altre. Allora c’era più scelta. Diversamente da oggi, dove le mode dettano legge.

A che cosa si riferisce?
Non ai nostri stilisti che hanno fatto grandi cose: si sono messi le pezze sotto al braccio e si sono imposti nel mondo. Anche se non sempre considero le loro proposte praticabili. Ma pensiamo ai blue-jeans, al mio Nando Moriconi di Un americano a Roma, per esempio: quel film era un modo per mettere in ridicolo quel personaggio che si metteva i blue-jeans, ammattiva per tutto ciò che era americano e piangeva perché stava a Roma invece che a Kansas City. Oggi, quarantacinque anni dopo, i blue-jeans si indossano ancora, e tutto quello che è prodotto americano non si discute. Mi sembra che ci sia troppa gente che guadagna milioni di miliardi contando sull’ingenuità e l’inesperienza dei giovani. E oggi è più difficile fare il tipo di comicità che ho scelto. È più difficile invitare la gente a riflettere sulla realtà che la circonda. Anche perché con una televisione protagonista, dove tutti sono attori, in tutti gli ambienti, non escluso quello della politica e della giustizia, la farsa continua è assicurata. I protagonisti della vita pubblica su cui un tempo si poteva ironizzare, oggi sono superiori a qualsiasi rappresentazione perché già si rappresentano, spesso con esiti da pura comicità. L’esibizionismo ormai è diffusissimo. Tutti sanno di essere personaggi pubblici, di comparire in televisione, di esseregiudicati per quel che si vede. E molti si acconciano di conseguenza.

Difficile fare spettacolo, insomma, in una società troppo spettacolarizzata.
Bisogna attenersi meno ai personaggi e raccontare storie più intime, non ancora patrimonio della mentalità, del comportamento comuni. In questo senso sono molto contento dei personaggi dei vecchi che ho interpretato nei miei due ultimi film, Nestore l’ultima corsa Incontri proibiti. Due tipi diversi: uno debole e indifeso, che subisce l’ultima crudeltà che può riservare la vita prima della morte: essere misconosciuto nei suoi meriti, relegato in un ospizio, diviso dagli affetti più cari. Sono andato in molti ospizi, e tutti i vecchi, che hanno un grandissimo spirito di adattamento, si rammaricano soprattutto di questo, di stare lontano dai figli, dai nipotini. Poi, l’altra faccia della medaglia: un uomo ricco, ancora di potere, tentato da una come Valeria Marini ad abbandonare la pace dei sensi che credeva raggiunta, la sua condizione di vecchio insomma.

Lei spesso non ha incontrato il favore della critica.
In genere, più uno fa film incomprensibili più viene esaltato dai critici. Forse perché cercare di spiegarli dà loro l’opportunità di riempire le pagine. Non che i critici abbiano scritto tanto male di me, ma spesso non mi hanno capito.

Si è mai riconosciuto in qualche altro attore? Chi ha contato per lei?
Solo Alec Guinness. I film che ha fatto li avrei potuti fare io. Lui, con quelle caratteristiche da inglese, che cammina come gli inglesi, con quella sua flemma nell’indagare, nel rispondere…

Da uomo normale?
Sì, la normalità caratteristica del suo Paese, con i suoi comportamenti fedeli alle origini. Attraverso Peter Sellers, di cui ero molto amico, sono riuscito a incontrarlo. Lo stimavo moltissimo, perché i suoi personaggi sono stati gli unici ad aggiungere qualcosa alla mia esperienza.

Ma quando lei era ragazzo, oltre ai primi attori che la facevano fantasticare, con chi si divertiva?
De Sica e Gino Cervi mi appassionavano, perché li sentivo parlare, non recitare. De Sica è stato quello che forse ho ammirato di più, anche prima della stima incondizionata che ho nutrito per lui quando si è dimostrato quel grande regista che era. Da giovane, magro, con quel suo nasone, aveva un grande successo ed era molto amato dal pubblico, anche se non si capiva perché la prima attrice si innamorasse di lui (nella foto De Sica nel film “Zero in condotta”). Mi entusiasmava, con quel suo naso, quando diceva: «Ti amo», e sentirlo pronunciare le sue battute in modo tanto semplice era un vero divertimento. Poi ho scoperto i De Filippo, e facevo di tutto per andare a vederli a teatro. Ma quando capitavo a vedere Ruggeri o Zacconi… mi volevo buttare giù dalla galleria.

Allora passiamo in rassegna un po’ di nomi. Di Vittorio De Sica abbiamo già detto. Ma quanto ha contato per lui Cesare Zavattini, con quella sua vena poetica surreale?
Zavattini era uno stimolo. Ma Zavattini da solo poteva anche non reggere. De Sica era un equilibrista che prendeva il meglio di Zavattini. Confezionando poi quello che abbiamo visto, facendo scuola, buttando giù le impalcature hollywoodiane di cartapesta, dando inizio a quella nuova forma di cinema dal vero, imitato poi anche in America.

Facciamo qualche passo indietro: Ettore Petrolini.
Petrolini non l’ho conosciuto, ma sono stato molto amico di Vladimiro Apolloni, un antiquario di via Frattina e di Mario Bonnard, attore del cinema muto insieme alla Bertini e alla Menichelli, che Petrolini frequentava moltissimo ispirandosi a loro. Erano due personaggi spiritosissimi, e il Gastone di Petrolini ha molto di Bonnard. Invece, per il mio Gastone, diretto proprio da Bonnard, mi sono ispirato piuttosto ad Augusto Cavicchia, Agustarello, un amico di tutti, caduto in miseria con il fascismo, che aveva fatto carriera nella Belle epoque, danceur di cabaret a Parigi, dove incontrò Rodolfo Valentino, che ebbe più fortuna ma che lui considerava «un burino che s’è rubato le basette mie». Tornando a Petrolini, fece scalpore un’intervista che mi fecero e che fu intitolata “Sordi non ama Petrolini, ama Fabrizi”. Semplicemente sostenevo: d’accordo Petrolini, certo merita di essere citato tra i grandi comici, è stato il più grande della Belle epoque, ma noi abbiamo un monumento nazionale, un uomo che solo con il suo aspetto, la sua faccia, fa cose straordinarie, che illumina la scena e dispone subito al riso, e non ce ne accorgiamo abbastanza. Mi riferivo ad Aldo Fabrizi. Perché non si parla mai di lui? L’ho ammirato in modo appassionato. Lo conobbi ai tempi in cui cominciavo a doppiare Oliver Hardy. Il sabato e la domenica lavoravo nei teatri, annunciandomi da solo: «Ed ora ecco a voi, in carne e ossa, la voce di Oliver Hardy», e rac­contavo barzellette alla Ollio. Anche Fabrizi la­vorava in quegli spettacoli e mi diceva: «Ammazza che coraggio! Come fai?». Dopo il mio numero mi precipitavo in platea a godermi quello suo, e restavo veramente estasiato. Era irresistibile, si rideva in continuazione.

Veniamo a Totò.
Fin da ragazzino andavo sempre a vedere tutte le riviste di Totò. È un personaggio unico, talmente dotato fisicamente… Non ce n’è un altro come lui. Forse chissà, tra cent’anni… Aveva una faccia divisa in due, da una parte nobile, cosa da lui poi rivendicata, l’altra da disgraziato. Steno gli mostrò alcune scene di Un americano a Roma, mentre ancora giravamo. E lui, che rappresentava in quel momento la comicità italiana, si incuriosì di uno come me, che non lo imitava e che di prepotenza andava affermando un tipo di comicità fino allora inesplorata. Mi invitò a pranzo, e io accettai onorato. Fu gentilissimo, ma io non mi ricordai di chiamarlo «principe». «Ecco, bravo», mi disse, «non mi chiamare principe». Mi mise subito a mio agio, era straordinario in certe cose. Totò era preoccupato di non trovare i registi adatti a lui. E io ebbi modo di dirgli che doveva stare tranquillo. Io invece per far ridere dovevo sempre inventare un personaggio, creare storie, situazioni. Per lui era diverso, bastava che entrasse in scena e il pubblico già rideva prima che aprisse bocca. Altro che registi di cui preoccuparsi, lui era sempre l’attore della commedia dell’arte, della recita a soggetto. Era lui il film, tutto il resto poi andava comunque benissimo. Il pubblico lo voleva così com’era. Ne fu molto contento.

Torniamo ai De Filippo.
Il loro era il più bel teatro che si fosse mai visto. Si apriva quel sipario e apparivano quei fondali di carta, quelle cucine. Perché c’era sempre una cucina, e lì si illuminavano le luci del giorno e cominciava lo spettacolo. Arrivava magari il personaggio della figlia, con le calze arrotolate giù, a girare il ragù. E si sentiva l’aria di Napoli, l’odore del sugo. Tutto era così naturale. Poi entravano in scena quei mostri sacri, Edoardo, Titina e Peppino, che insieme erano una cosa incredibile. Con l’eredità di Scarpetta sulle spalle. E attori più giovani come i Giuffré, caratteristi come Tina Pica e altri che poi sono diventati importanti al cinema. Un teatro che era un nostro monumento nazionale. Ma qualche volta, chissà perché, le famiglie litigano e si dividono, senza badare agli interessi dello spettacolo o del pubblico che le ama.

Tra gli attori comici della sua generazione, c’è qualcuno a cui riconosce un talento speciale?
Attori della mia generazione che stimavo e che mi erano amici, ce ne sono tanti. Facevamo tutti teatro durante la guerra. Ero molto amico di Galeazzo Bent, Gianni Agus, Franco Scandurra, Vittorio Caprioli, Franca Valeri. Quella era una generazione che prometteva e infatti dopo la guerra ci affermammo tutti. Uno invece che non conoscevo e che scoprii a Milano era Walter Chiari. Ero al Teatro Olimpia con la rivista Soffia So di Garinei e Giovannino Ci vennero a dire che c’era un ragazzo, con l’aspetto di uno studente un po’ scamiciato, che teneva inchiodato il pubblico per più di due ore, solo parlando. Andammo a vederlo, ed era proprio così. Col passare degli anni mantenne questa sua caratteristica, perché era molto generoso, proprio di parole, e una barzelletta che si poteva raccontare in poche battute lui la faceva diventare un poema. Gli volevo bene e mi divertiva, ma non ha saputo sfruttare in pieno il suo talento, anche quando aveva il massimo delle opportunità e del gradimento del pubblico. È rimasto sempre un po’ studentesco, dilettantesco, troppo fedele alla sua formula degli esordi.

Tra i comici di oggi c’è, secondo lei, qualche innovatore?
Credo che tutti, pur guardando a vista la strada che abbiamo tracciato noi quarant’anni fa, abbiano contribuito ad aggiornare la comicità: attraverso il linguaggio, l’attenzione ai comportamenti. Abbiano saputo registrare, insomma, i mutamenti del costume. Nanni Moretti più legato a certe ideologie, Carlo Verdone tenendo d’occhio il modo di parlare delle giovani generazioni. Leonardo Pieraccioni con l’aiuto della toscanità ha introdotto una comicità meno frequentata, anche un po’ perbenista: le sue cose meritano considerazione. Certo il successo va saputo mantenere, perché una volta che te l’ha attribuito il pubblico diventa più esigente. L’importante è non adagiarsi sul proprio registro, ma continuare ad arricchire l’impostazione del personaggio.

Qual è, secondo lei, la missione della comicità?
Rappresentare i problemi e le realtà della vita in modo liberatorio, così che la gente che vi si riconosce possa essere aiutata a superarli con un po’ d’ironia. E magari riuscire anche a tracciare una linea di comportamento, semplicemente mostrando certe negatività di cui, così, si diventa più consapevoli. Fornendo, insomma, sorridendo, una possibilità di redenzione.

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