Danilo Maestosi
I fuochi d'artificio della capitale

Roma senza estate

L'amministrazione grillina di Roma manda in pensione lo storico logo "Estate romana” che per quattro decenni ha segnato l'identità della città nel mondo. Davvero era necessario? E, perché, ancora una volta, provocare una tempesta in un bicchier d'acqua (senza un vero progetto)?

ROMARAMA. Che sterile balletto di opinioni superficiali, dirottamenti di senso e nostalgie ignoranti sulla decisione del Campidoglio di ribattezzare con questo nuovo gioco di parole il cartellone di eventi dei prossimi mesi, da luglio a dicembre, archiviando dopo quasi mezzo secolo la vecchia sigla di estate romana coniata da Renato Nicolini.

Nulla di male ad ammainare una bandiera sempre più sfilacciata che sventolava per forza d’inerzia, ma che come tutti i cimeli significativi di generazioni passate è comunque entrata nella storia recente delle città: una memoria da interrogare dunque con più rispetto e attenzione per chi l’ha condivisa. Relegarla ad un pensionamento da museo, non richiedeva almeno l’obbligo di misurare le ragioni di un successo e di una capacità di coinvolgimento emotivo di così lunga durata?

Comprensibile da parte di una giunta, quella della sindaca Raggi e del suo vice Luca Bergamo, sempre in affanno e sempre in ritardo, il tentativo di camuffare con un’apparenza di progetto di ampio respiro prolungato fino all’inverno un cartellone e una disponibilità di luoghi praticabili assottigliati dalla crisi economica e dalle restrizioni della pandemia non ancora sconfitta. Ma perché sacrificare un nome, quello di Estate romana, scolpito nel linguaggio e nelle abitudini anche per la sua immediatezza, per sostituirlo con un appellativo, artificioso e pomposo che mescola due radici semantiche di scarsa presa diretta, coniugate e fuse in lettere maiuscole: l’idea di Roma e quella di panorama?

La prima ingigantita a sproposito, perché non rispecchia in nessun modo la politica di una giunta grillina che ha stentato e stenta a governare persino l’ordinaria amministrazione, riducendo a municipio di incontrollata burocrazia una capitale unica al mondo.

Il teatrino Scientifico di Via Sabotino

La seconda, il suffisso orama che, per spiegarci che sta ad indicare un allargamento di vedute, il mago della comunicazione che l’ha inventato deve ripescare un’esperienza desueta e fallita, quella del cinerama, uno schermo esteso ad abbracciare i margini dello spettro visivo. Una metafora mal riuscita solo per sottolineare una promessa – ormai gergo politico e dilemma globale per tutti i gusti – quella del riscatto e della riqualificazione delle periferie, parole d’ordine che la giunta Raggi ha ampiamente disatteso, dalla politica dei trasporti a quelle della casa, dei servizi, di una rinnovata coesione sociale. E che il suo assessore alla cultura Luca Bergamo ha interpretato come un lavacro di cattiva coscienza, convinto che l’unica ricetta possibile sia quella omeopatica di decentrare in briciole nei territori dimenticati di bordo qualche iniziativa di contorno o di importare in centro qualche esperienza pilota legata alle voci del dissenso. Arretrando ogni volta che sorgeva un conflitto, come è successo con la gestione come laboratorio aperto del Macro affidata e poi sottratta a Giorgio De Finis, al quale è stata ora invece riconsegnata come risarcimento la direzione di un museo delle periferie a Tor Bella Monaca, intrigante progetto ancora in gestazione incluso senza spiegazioni tra i titoli di ROMARAMA.

Sul fronte opposto, confuso e superficiale anche il coro delle polemiche sulla soppressione dell’estate romana. Ad alimentarlo anche qualche politico del centrodestra, che si è maldestramente lanciato in difesa della vecchia sigla come patrimonio di tutti i romani, dimenticando la canizza che all’epoca si levò dallo stesso fronte contro le invenzioni di Renato Nicolini, incoronato come un asino da portare alla gogna col titolo spregiativo di re dell’effimero.

Quarant’anni e passa dopo quell’accusa non torna per fortuna più in campo. E tutti concordano che fu proprio la novità e il successo straordinario di quegli spettacoli e quelle provocazioni estive da nottambuli a scuotere Roma dal suo torpore spingendo la classe dirigente locale e nazionale a colmare l’handicap di strutture stabili per la cultura, che la relegavano fuori dal circuito delle grandi capitali europee. Eppure l’Estate romana continua a scontare i danni di una cattiva memoria, anche se non c’è borgo o città italiana che non ne abbia imitato o ripercorso i modelli, trasformando la programmazione dei mesi più caldi che prima erano stagione morta, confinata in prevalenza agli svaghi del corpo, e arricchendo con dosate e costanti iniezioni d’effimero anche la gestione di siti archeologici e musei.

Un caso di costume citato da tutti ma poco analizzato e poco studiato: non sono più di una decina i saggi critici che ne hanno esaminato e approfondito l’evoluzione e i passaggi. È anche questa inconsistente nebbia di riflessione che trascina nell’approssimazione a senso unico della nostalgia le voci e i pareri di quelli che sono insorti contro la liquidazione dell’estate romana. Colpisce tra queste testimonianze sulla stampa o sui social che più o meno tutti ricordino tra i meriti delle estati nicoliniane quello di aver offerto spettacoli e manifestazioni gratuite. Un ricordo inesatto. La maggioranza delle manifestazioni imponevano il costo di un biglietto. Si pagava sin dall’inizio nelle maratone di Massenzio, si pagava per le serate all’insegna del ballo perduto a villa Ada, si pagava per molti concerti che dischiusero per la prima volta ai nottambuli le notti nei parchi storici della città. Neanche un amministratore poco ortodosso come Renato Nicolini poteva sottrarsi ai legacci che scoraggiavano e limitavano i finanziamenti diretti del Comune. Certo, si pagava poco e quasi sempre dopo mezzanotte le porte si aprivano a tutti. E solo a volte non si pagava affatto. Come al festival dei poeti a Castel Porziano e in piazza di Siena. O al grande veglione di Capodanno sotto il tunnel del Traforo. O al festival della miseria allestito nel piazzale del Mattatoio. O alle sfilate del circo lungo via Giulia e Campo dei Fiori. Manifestazioni di massa che sono entrate nella leggenda non certo perché erano gratuite, ma perché hanno incarnato, messo in scena e superato allo stesso tempo il clima di quegli anni di tempesta e rivolta.

Una risposta al terrorismo, che ne stemperava la paura senza negare il conflitto, imponendo una insolita tregua di convivenza e di confluenza, borghesi e ribelli, borgatari e famiglie dei quartieri bene, vecchi e giovani gli uni accanto agli altri in platea, senza troppi attriti, liberati da una visione non togata di accesso e fruizione culturale e da una sfida comune, riappropriarsi della città.

Perché fu proprio questo a fare la differenza negli anni della prima giunta rossa in Campidoglio, rimettere davvero Roma con la sua storia e i suoi bisogni al centro di ogni decisione. Con due progetti interconnessi. La riqualificazione delle periferie, con la eliminazione di borgate e borghetti e la costruzione e l’assegnazione di nuove case popolari: una mole di interventi e investimenti mai vista dal dopoguerra. E poi la valorizzazione della grande area archeologica centrale con un piano di rilancio che dalla distesa dei Fori si riallacciava all’Appia antica e, almeno sulla carta, a tutti i monumenti e le aree antiche interne e ai margini della città.

Far da cerniera e cassa di risonanza a questa doppia operazione fu il compito che prima il sindaco Argan e poi il suo successore Luigi Petroselli assegnarono, forse sarebbe più esatto dire riconobbero, all’estate romana, premiando le intuizioni di Renato Nicolini. Quel mescolare festa e laboratorio, cultura alta e bassa che riuscì a sperimentare solo a partire dal suo secondo anno di architetto dell’effimero. Pochi infatti ricordano le prime manifestazioni che riuscì a varare dopo il suo insediamento. Un cartellone sfilacciato e sbiadito di poche manifestazioni nei quartieri periferici, che gli fu imposto dalle opzioni ottusamente ortodosse dell’apparato comunista e non lasciò traccia.

Il film “Napoleon” di Abel Gance al Colosseo

A far decollare l’estate romana fu l’approdo a Massenzio: uno dei monumenti dell’area centrale trasformato in arena popolare per serate di cinema che alternavano senza sensi di colpa pellicole sofisticate e successi di cassetta. Poi toccò all’area di via della Consolazione. Poi al Colosseo. Poi al circo Massimo. Ogni tappa si accodava o faceva eco ad un intervento di riqualificazione della vecchia e prima intoccabile culla della Roma imperiale. La Roma di pochi diventava la Roma di tutti. L’estate in città, prima un deserto capace solo di esibire i trionfi di Aida a Caracalla, che diventava una stagione di avvenimenti e sorprese, provocazioni e feste di piazza, offrendo svaghi e risarcimento ad una maggioranza di popolo comunque inchiodata qui nei mesi più caldi. In periferia cominciavano a sparire borgate e borghetti, ma ai brutti sporchi e cattivi che finalmente trovavano alloggio con una nuova dignità veniva restituito anche l’orgoglio di essere e vivere a Roma, parte di una bellezza e una storia che prima gli era stata negata. Rivedetevi su Youtube lo spot che accompagnò la campagna per l’elezione di Luigi Petroselli: Ninetto Davoli e Franco Citti, due ragazzi di Pasolini, che attraversano la città in metro e scoprono le meraviglie e le novità di un centro storico accogliente anche per due poveracci e in fermento per poi concludere la loro spedizione nell’arena sotto il Colosseo. E mettete a confronto questo filmetto pubblicitario con il logo varato per ROMARAMA: l’immagine di due gatti randagi. Poi tirate voi le somme.

Ripartire dalle esperienze dei territori? È probabile che le nuove avanguardie si trovino lì. Ma rischiano di essere o tornare ad essere invisibili se questi movimenti non riescono a fare Rete. Se Roma non ci mette la faccia e non entra in gioco come bandiera unificante. Evitando di nascondersi nell’enfasi di una maiuscola, falsa come un saluto fascista.

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