Asia Vitullo
Cinema dal divano

Come uscire dal Buco

Nel film “Il Buco", il regista spagnolo Galden Gaztelu-Urritia usa la metafora di una prigione scavata nel cuore della terra per descrivere la condizione di chi riesce a cambiare se stesso solo quando è costretto dal dolore

Il cielo non è più lo stesso: lo sappiamo ormai da tempo, e questa amara consapevolezza ci spinge verso un bivio dicotomico, l’accettazione o il rifiuto. Ci sforziamo di comprendere il senso della complessità metafisica che, in svariati modi, ci ha traslitterato in qualcosa di diverso. L’archè di tutte le domande legate all’immanente tangibilità potrebbe essere, in modo semplicistico, la seguente: perché solo il dolore è in grado di trasformarci? Il regista spagnolo Galden Gaztelu-Urritia risponde concretamente a una dinamica tanto difficile, quanto scomoda da accettare. Il Buco, attraverso un verticalismo strutturale e allegorico, tesse la grande tela intrecciata di congetture e verità terrificanti. Il film, presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival il 6 settembre 2019 e distribuito nelle sale cinematografiche spagnole l’8 novembre dello stesso anno, è stato recentemente acquistato da Netflix, garantendogli la notorietà anche al di fuori del contesto europeo.

Un coltello e un libro. Queste le due forze che combattono la guerra metaforica all’interno di un discorso ingegnato a mo’ di grande apparato capitalistico. La vicenda si dirama attorno a Goreng (Iván Massagué), di cui non conosciamo nulla, se non la sua ingenua idea di sopravvivere in un universo di autodistruzione. Il Buco – la Fossa come viene chiamata nella pellicola – altro non è che una prigione sviluppata sottoterra e suddivisa in livelli. La peculiarità che rende la cattività anomala e agghiacciante è la macchinazione che si modella sopra di essa: al piano 0, in cima all’edificio, è situato un gruppo di chef che preparano pietanze gradite ai residenti; il cibo, una volta posizionato su un’apposita piattaforma, scende nei meandri della struttura in un buco – appunto – posizionato al centro di ogni livello che, a sua volta, ospita due prigionieri. Il meccanismo è semplice: chi è ai piani alti riesce a sfamarsi, chi si trova in basso patisce la fame rischiando la vita. Ogni inquilino, che diventa tale per motivazioni differenti, può decidere in autonomia di portare con sé un solo oggetto: Goreng affronterà il suo viaggio assieme al Don Chisciotte e all’aspirazione di ottenere un attestato di permanenza, ignaro delle norme che regolano quel sistema. Si sveglierà nel quarantottesimo livello in compagnia di Trimagasi (Zorion Eguileor), un anziano signore con un coltello affetta-tutto.

Mese dopo mese però i detenuti sono spostati casualmente in un altro livello, dando vita a un gioco spietato che l’amministrazione gestisce e del quale manovra le mosse. Il protagonista cercherà di demolire gli ingranaggi sadici del Buco attraverso una vera e propria catabasi: il suo sarà un lungo cammino nella follia umana e nella completa sublimazione della società al potere capitalistico e al processo di autoconservazione. L’inferno messo in piedi da Gaztelu-Urritia proietta il pubblico in un impianto distopico e disarmante che manipola la mente di chi lo vive. Il messaggio che ne emerge è il sempre meno considerato sentimento di misericordia e solidarietà. Goreng, attraversato completamente dalla sofferenza viscerale dell’umanità, ne uscirà (metaforicamente?) diverso: la speranza e la grande forza di volontà lo guideranno oltre l’annullamento nichilistico e verso la luce della condivisione e del cambiamento.

Facebooktwitterlinkedin