Asia Vitullo
Cinema dal divano

Tecnologia del ritrovarsi

"Her", il film di Spike Jonze del 2013, con Joaquin Phoenix, anticipa un tema oggi più che mai attuale: qual è il rapporto tra i sentimenti e l'intelligenza artificiale? Che cosa, di ciò che respiriamo, è ancora reale?

Assenza. Immobilità. Solitudine. Il presente materializza, lettera dopo lettera, la catena inesorabile delle parole più cupe e vuote. Il nostro corpo è atrofizzato in un lento e instabile vagabondare dentro nuove possibilità e nuovi flussi di vita. Il tempo non esaudisce la sua irreversibilità e l’eternità ciclica che scorre senza sosta nel suono del vento non può essere ingannata, se non immaginando come il futuro costruirà circostanze diverse. E immersi in un ipotetico domani, di cosa abbiamo bisogno per essere felici? Her elabora scenari, emozioni e ombre di una realtà in grado di comporre una perfetta sinfonia con la tecnologia. Il film, scritto e diretto da Spike Jonze nel 2013 e attualmente reperibile su Netflix, si aggiudica il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale l’anno successivo.

In un luogo lontano e non definito, Theodore Twombly (interpretato dal pluripremiato Joaquin Phoenix) è un uomo introverso e malinconico, reduce da un amore che ha capovolto la sua stabilità. «Ti facciamo una semplice domanda: chi sei? Chi potresti essere? Dove stai andando? Cosa c’è nel mondo? Quali possibilità ci sono? […] Non è solo un sistema operativo, è una coscienza. Ecco a voi OS 1». Il protagonista, attratto da una pubblicità, decide così di sperimentare Samantha (con la voce di Scarlett Johansson), un’intelligenza artificiale in grado di riordinare i pensieri nebbiosi e smarriti di Theodore. I due instaureranno un rapporto idilliaco, che prescinde dall’effimera corporalità e si innalza in un macrocosmo di purezza e percezioni ignote. Il regista, partendo dalla forte dicotomia corpo-mente, ricrea un palcoscenico di sole voci che si incastrano l’una all’altra in una trascendente epopea romantica. Il fascino della materialità e la caducità dell’astrattezza scendono a patti in un gioco tanto perfetto quanto sbagliato. «Tu sei reale per me, Samantha», dichiara in un frangente il protagonista.

L’idea di un’evoluzione così potente della macchina costringe lo spettatore a interrogarsi sui paradossi che ruotano attorno alle innovazioni informatiche e su come le sensazioni, così umane e fragili, possano diventare semplici ingranaggi di un sistema non autentico. La finzione/verità di Samantha smaschera la società delineata da Jonze: un caos ordinato, abitato da individui asociali e indifferenti agli occhi di chi li circonda. Lo stesso Theodore, che assume di volta in volta l’identità di una persona diversa, lavora componendo lettere d’amore per conto di altri: egli rende palese l’impossibilità di gestire le sue emozioni reali, ma riesce a destreggiarsi con quelle che non gli appartengono.

Her è straordinariamente contraddittorio: la naturalezza e la semplicità della passione tra i due personaggi si spegne gradualmente e delicatamente, lasciando spazio alla nudità dello schermo. La pellicola scompone in molti piani quello che l’attualità ci presenta, estremizzando una possibilità che si incastra diversamente al nostro quotidiano. Il black mirror plasma aneliti di idee, pensieri, parole, mascherandosi da ideale chimera aggrappata a situazioni di sconforto e isolamento. Ma riuscirà mai a catturare il riflesso dei congeniti impulsi umani? Che cosa, di ciò che respiriamo, è ancora reale?

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