Nicola Fano
Storie di un'altra Italia

In memoria di Luigino

Ritratto di uno dei tanti "invisibili" che fino agli anni Ottanta hanno vissuto nel rispetto e nell'affetto di chi gli stava accanto. Si parla di vecchi "comunisti", sì, quando il comunismo non era un'ideologia ma un modo di costruire un mondo di giusti

È morto Luigino Fraioli, uno di quegli invisibili di cui, prima o poi, bisognerà raccontare la storia per capire che cos’era questo Paese, fino a qualche decennio fa. Cose che occorre ricordare perché non siamo stati solo i furbi, gli arraffoni, i mediocri cattivi che siamo oggi: siamo stati anche qualcos’altro. Non troppo tempo fa.

Luigino Fraioli era un uomo storto e un po’ smilzo, viveva a San Lorenzo, a Roma, ed era di casa alla redazione de l’Unità in via dei Taurini (una piccola strada proprio al margine di quel quartiere quand’era popolare, non come ora che è terra di sballo e intellettuali trendy). In via dei Taurini, la redazione de l’Unità c’è stata fino al 1992 e fino ad allora Luigino ne è stato uno dei principali abitanti. È difficile dire quale fosse la sua mansione: sbrigava faccende che presupponevano fatica. Non era propriamente un fattorino. I fattorini, all’epoca, erano dei compagni che risolvevano i problemi dei giornalisti. Problemi pratici: portare al tavolo i take delle agenzie, spedire in tipografia i fogli sui quali con la macchina per scrivere avevamo vergato titoli e pezzi, accompagnare gli ospiti. La sede de l’Unità era su cinque piani (comprese la tipografia, la rotativa, l’amministrazione e la redazione vera e propria): sicché la figura del fattorino era una necessità, non propriamente un lusso.

Luigino non era un fattorino in senso proprio – non credo che fosse contrattualizzato come tale, da l’Unità – ma era sempre dove serviva. Quando non aveva impegni specifici, gironzolava per le stanze, diceva qualche amenità, poi si metteva seduto su una sedia e dormiva. Ogni tanto, senza troppa insistenza, cercava di vendere qualche vestito, qualche oggetto, qualcosa che nessuno sapeva dove l’avesse trovato.

Era uno della famiglia. Non chiedeva soldi, ma tutti gliene davamo perché era normale dargliene. Era semplice, per tutti noi giovani e meno giovani giornalisti o tipografi o amministratori de l’Unità, aiutarlo. Era naturale, soprattutto. Ciascuno di noi lo sentiva vicino, e sapeva che solo il caso aveva messo Luigino nel suo ruolo e noi nel nostro. Anzi, la nostra prospettiva era che le parti un giorno si scambiassero, e tutti i Luigini del mondo potessero avere l’opportunità che sognavano come noi l’avevamo avuta. Anche ai Luigini del mondo spettava la nostra fortuna: noi avremmo fatto di tutto perché ciò accadesse, di questo eravamo pienamente convinti.

Io credo, in fondo, che Luigino fosse un uomo felice (anche se quando perdeva la pazienza era un toro scatenato di cui avere paura). Perché sentiva di far parte di un mondo che lo accettava e, all’occasione, lo accudiva. Luigino aveva un difetto di pronuncia ed era un po’ storto perché da bambino aveva subito il terribile bombardamento di San Lorenzo: ma non ricordo di aver mai visto nessuno prenderlo in giro per questo. Quando mi parlava e non capivo che cosa mi stesse dicendo, ritenevo che la colpa fosse mia. E anche lui, sono certo, la pensava allo stesso modo. La sera, mangiava con noi alla mensa del giornale e immancabilmente c’era qualcuno che gli offriva il pasto. Senza smancerie, senza vanterie: eravamo un mondo di uguali.

Luigino era invisibile, perché viveva di comunismo. Il quale comunismo per lui – e per noi – non era un’ideologia, ma una famiglia. O, se preferite, un modo di vivere la vita sapendo di poter contare su affetti e rispetto. Il nostro principio era il rispetto reciproco. Sempre, comunque: questo era il nostro modo di sentirci comunisti. Ho conosciuto tanti invisibili, a l’Unità. Eravamo una famiglia, l’ho già detto. Ricordo un uomo terribile, tarchiato e muscoloso, biondo come uno svedese e pieno di tatuaggi quando non erano una moda da fighetti: era stato coinvolto in non so bene quale impiccio dopo la fine della guerra (probabilmente una missione punitiva contro qualche fascista riciclato) e il partito – il Pci – lo aveva nascosto in Francia. Lì aveva vissuto ai margini, senza un passaporto, senza un lavoro stabile finché era riuscito a tornare in Italia: il partito lo aveva messo lì da noi a fare il fattorino. Anche in questo caso, non so se avesse un contratto regolare (non aveva documenti, nessuna amnistia aveva cancellato il suo passato). Insomma, era un uomo di cui, in un altro mondo, sarebbe potuto capitare di aver paura. Non lì da noi. Era uno della famiglia: mi aveva preso a benvolere e chiacchieravamo spesso. Era un uomo di ottime letture, per altro; conosceva intellettuali e scrittori francesi che io nemmeno immaginavo. Non era strano parlare di teatro e di cultura con questo personaggio tatuato e pieno di segni sul viso: non vantava un’epica da “duri a Marsiglia” ma quella di un vecchio militante che sa tante cose della vita.

Era il nostro modo di essere comunisti. Così come lo era essere amici, amici veri, non solo dei giornalisti (come capitava ai nostri colleghi di altre testate, che vivevano in una perenne autoreferenzialità), ma anche dei fattorini, dei dimafonisti, dei correttori di bozze, degli archivisti. Il più raffinato intellettuale che abbia mai conosciuto nella mia vita si chiamava Antonio Solaro: era il capo archivista de l’Unità. Oltre a parlare parecchie lingue e ad avere un passato mitico (era stato partigiano in Grecia) era un lettore finissimo: aveva sempre qualche consiglio giusto da dare anche ai commentatori più navigati. Senza contare che le sue “buste di notizie” (non esisteva internet, sicché per preparare un servizio si dovevano leggere gli articoli che Antonio Solaro nel tempo aveva saggiamente ritagliato a proposito di qualunque tema) erano semplicemente perfette: c’era tutto ciò di cui si poteva avere bisogno.

È questo il mondo degli invisibili, degli uomini giusti nel quale qualcuno di noi ha avuto la fortuna di crescere e formarsi. Maestri di vita, prima ancora che di dottrina o di ideologia. Per questo, quando ascolto quel cretino di Salvini (o prima di lui quando ascoltavo quel mascalzone di Berlusconi) vociare di comunismo e altre cazzate perdo la pazienza. Non sanno di che cosa parlano. E non lo sapranno mai perché non avranno mai gli strumenti per capire e rispettare le persone per quel che sono.

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