Flavio Fusi
Cronache infedeli

Canzonette italiane

Che cosa pensano "gli altri" dell'Italia? E perché nel mondo c'è così tanta diffidenza nei confronti della nostra capacità di affrontare e risolvere le crisi? Forse, il problema, è nella nostra storia recente. E nella continua rimozione dei nostri errori

«Le poste non funzionano. Non ha letto che l’Italia è in sfacelo?», scrive così, proprio così, Saul Bellow nel suo romanzo Il dono di Humboldt, pubblicato nel lontano 1975. Nulla di nuovo: anche negli ambienti intellettuali americani già allora il nostro Paese era dato per spacciato. E in qualche modo, al pari delle splendide rovine romane, l’atteso disastro economico e sociale rivestiva un suo romantico fascino. Nel vasto mondo fuori dai nostri confini, lo sfacelo italiano è dunque un evergreen classico, una catastrofe più volte annunciata, il morto che afferra il vivo e l’eterno ritorno del già visto.

In questa specialità della casa siamo simili ai nostri cugini o fratelli argentini che da un secolo navigano di crisi in crisi, di illusione in illusione, di delusione in delusione. A differenza degli argentini – che occupano le piazze e sfidano fumogeni e manganelli – noi affondiamo invece con grazia e leggerezza. Non è un caso se in Notas – un tango moderno che traccia la carta d’identità del grande paese australe – l’influenza dei nostri progenitori immigrati è individuata nelle canzonetas de los Tanos: le canzonette degli italiani.

Canzonette, dunque. O, più classicamente, pizza e mandolini. A questa rudimentale scuola di pensiero appartiene uno sbrigativo e già archiviato articolo del New York Times, che – nei primi tempi della pandemia – prevedeva una resa del nostro paese all’assalto del virus. E questo – scriveva il giornalista americano – proprio per lo storico vizio italiano: l’endemica incapacità a rispettare ogni e qualsiasi regola di comportamento.

Dunque no, bisognerebbe sempre guardarsi dai luoghi comuni. Si è visto in questi mesi che, al netto della solita dose massiccia di retorica  e di vittimismo, gli italiani si sono acconciati con buona lena alle nuove regole. E si vede oggi che i vigilati speciali sul fronte di battaglia sono ben altri: dal gigante nord-americano ostaggio del presidente Trump al Brasile del villain Bolsonaro, dalla Gran Bretagna della Brexit fino a quella Svezia che ha cessato da tempo di essere un modello di welfare.

Un secolo fa, all’Avana – durante la storica visita di Karol Woytila – un giornale cubano si concesse una affettuosa canzonatura: «Los italianos son un desastre…». Più divertiti che offesi, noi giornalisti leggemmo questa accusa estemporanea nella fresca penombra del Cafè Floridita, sotto lo sguardo comprensivo di una grande foto di Papa Hemingway. Appena fuori, sulla strada inondata dal sole, faceva bella mostra di sé il vero e clamoroso desastre cubano: una rivoluzione malconcia che implorava dal più anticomunista dei Pontefici il lasciapassare per un futuro appena degno.

Dunque, cautela: se non altro, questa crisi sta dimostrando che gli italiani non sono proprio un disastro e appartengono di diritto – nel bene e nel male – alla grande famiglia europea. Diverso il discorso su chi è al timone della barca del governo. I nostri partners europei ci rimproverano a ragione il solito peccato originale: la rimozione della storia, un colpevole analfabetismo rispetto alla logica elementare delle cause e delle conseguenze.

Abbiamo – ahimè – la memoria di un pesce rosso. Come denuncia il professo Sandro Brusco, docente di economia alla State University of New York: «La diatriba di questi giorni sull’adesione al Mes conferma la persistente rimozione della realtà dei fatti politici dal 2010 al 2012.  Che si aggiunge alla rimozione dei fatti economici della legislatura 2001-2006, che si aggiunge alla rimozione della crisi 1992-1994, che si aggiunge a tante altre rimozioni. Finché non si supera questa rimozione (ci vorrebbe uno psicanalista collettivo) il nostro dibattito pubblico non potrà funzionare».

In attesa dello psicanalista, i nostri politici si baloccano sulla possibilità di un prestito liberatutti, in pratica un magnanimo regalo concesso dai Paesi virtuosi al nostro indebitato Paese. Il giornalista tedesco Udo Gumpel – corrispondente in Italia per Rtl-Tv – si fa interprete dei sospetti dei suoi concittadini: «Serpeggia un dubbio in Germania: e se l’Italia usasse l’emergenza Covid 19 solo come pretesto per farsi finanziare in generale il suo debito, dato che finora rifiuta ogni aiuto finanziario specifico contro la pandemia?».

Perché mettersi dalla parte del popolo come dicevano i nostri rivoluzionari d’antan e come predicano oggi i vari sovranismi, funziona nei due sensi:  appena varcate le frontiere, il popolo è quello olandese o tedesco o danese. In altre parole: ogni governo ha un popolo a cui rendere conto, ogni politico ha un elettore che deve votarlo.

Così è solo un paradosso apparente il fatto che venga dall’alleata tedesca di Salvini – la leader di Afd, Alice Weidel – la critica più feroce al piano congiunto franco-tedesco di 500 miliardi di euro: «Questa è la rottura di una diga, una decisione che capovolge il diritto vigente. La cancelliera tedesca si è inginocchiata di fronte all’avidità della Francia e dei paesi iper-indebitati dell’Europa del Sud».

A proposito di mancanza di memoria: i nostri dovrebbero ricordare le risatine di complicità tra la Merkel e Sarkozy nel non lontano ottobre 2011. Allora il convitato di pietra era un arzillo Cavalier Berlusconi che cavalcava lo spread imbizzarrito come il dottor Stranamore a cavalcioni della bomba atomica. Sgradevole quel siparietto a favore di telecamera? Certo, ma più sgradevole era lo spettacolo di un governo che trascinava il paese verso il burrone di una crisi devastante. Di quel passato recente non c’è memoria nella quotidiana rissa politica, e a questa amnesia guardano con preoccupazione le forze più responsabili dell’Europa.

Il disastro – come frutto avvelenato della pandemia – sarebbe quello che il sociologo Luca Ricolfi chiama il declino verso una società parassita di massa. Immaginiamo un’Italia futura in cui la maggioranza di non-lavoratori diventa schiacciante e il benessere diffuso scompare di colpo, inghiottito dalla recessione e dai debiti. «I nuovi parassiti – spiega Ricolfi – vivranno in una condizione di dipendenza dalla mano pubblica, con un tenore di vita modesto e un’attitudine a pretendere tutto dall’assistenza di Stato, con conseguente dilatazione della mente servile». Mente servile in una società impoverita: un incubo all’ orizzonte che sta nelle carte della crisi italiana e che minaccia di infettare l’Europa intera.

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