Beppe Navello
La febbre della pestilenza

Il virus di Robinson

Un virus ci sta mettendo in ginocchio: colpa della paura, della disorganizzazione, dell'autosuggestione? Forse si potrebbe tornare a un saggio di Giorgio Barberi Squarotti che mescolava il Decameron con Robinson

Domenica 23 febbraio, verso sera, mentre ero in campagna ad Acqui, nell’Alto Monferrato, a lavorare ad una vecchia casa che non finiremo mai di restaurare, ricevo una telefonata da mia figlia che non avevo più visto da quasi un mese, perché in tournée con Arsenico e vecchi merletti, produzione Gitiesse, regia di Geppy Gleijeses, una decina di interpreti accanto ad Anna Maria Guarnieri e Giulia Lazzarini. Uno spettacolo fortunato, uno dei pochi senza problemi di tournée, in questo paese che si sta sbarazzando del teatro. Maria Alberta chiamava da Novara, alla fine della pomeridiana, per dirmi che sarebbe rientrata a Napoli, dove ha messo su famiglia, perché le recite in Friuli Venezia Giulia previste nei giorni successivi, erano state annullate in seguito ai decreti delle regioni del Nord per fronteggiare il rischio da Corona Virus. Ma c’era anche di più: correva voce a Novara che, forse, tutta la compagnia non avrebbe potuto mettersi in viaggio per altre destinazioni in quanto rimasta in Piemonte nei giorni cruciali dei primi casi accertati di contagio; e quindi Maria Alberta stava proponendo agli allarmati colleghi di trasferirsi tutti in campagna da noi ad Acqui che è ancora territorio piemontese, per affrontare la quarantena in rassegnata letizia. Predisponendomi mentalmente all’idea di un’ospitalità così impegnativa, sono andato a lavarmi le mani per almeno un minuto, come mi raccomandava ormai da giorni il vecchio amico Michele Mirabella nello spot governativo rivolto agli Italiani da tutti i canali RAI: e mentre ero intento scrupolosamente a quell’operazione, sono stato assalito da un lontano ricordo della prima giovinezza.

Nell’anno accademico 1967/68 ero un ambizioso studente del primo anno di Lettere all’Università di Torino e tra i corsi che seguivo con maggiore passione ce n’era uno tenuto da Giorgio Barberi Squarotti, grande critico italianista e poeta del secolo scorso: si intitolava La cornice del Decameron o il mito di Robinson. Quell’anno Barberi lo pubblicò da Giappichelli, la mitica casa editrice torinese creata da un geniale bidello dell’Università che a inizio Novecento propose agli accademici di stampare i loro corsi per gli studenti che non frequentavano continuativamente le lezioni; e quindi fu una casa editrice di ghiotte anticipazioni critiche che maturavano poi in successive opere affidate ad altri cataloghi nazionali o internazionali. E così accadde anche per quel testo, riapparso più volte in altri volumi scritti da Barberi. A me è sempre rimasto il piacere di aver degustato una primizia erudita dedicata a una riflessione provocatoria e importante: quella raccontata da Boccaccio, i tre giovani e le sette fanciulle che si incontrano a Santa Maria Novella durante la peste e decidono di lasciare Firenze per chiudersi in una villa di campagna (il locus amoenus della tradizione classica) al fine di sfuggire non soltanto il contagio ma anche il degrado etico della città di Firenze, i cui abitanti hanno perduto, di fronte alla minaccia della morte, ogni norma di comportamento, ogni freno inibitorio. Pampinea, la più matura delle fanciulle, si assume la responsabilità di spiegare che rifugiarsi in campagna può essere la via giusta per ripristinare l’ordine del mondo e la sua moralità: attraverso regole che determinano i comportamenti quotidiani e alternano la signoria di tutti i partecipanti sulle giornate da vivere insieme o sulle cose da raccontare. Come Robinson Crusoe, diceva Barberi Squarotti, l’eroe di Defoe, che ricostruisce il mondo a sua immagine e somiglianza proprio grazie alla tragedia di un naufragio su un’isola deserta. Come dire che non tutto il male vien per nuocere, neppure con una pestilenza? Meglio, che le sventure della storia offrono alla creazione intellettuale la possibilità di immaginare nuovi universi per le azioni umane, nuove direzioni di ricerca, nuovi spazi da abitare.

I giorni, anzi le ore successive a quella telefonata, hanno riadattato i contorni di un’opportunità al pasticcio che ha sprofondato l’Italia tra i paesi in via di sviluppo o forse sottosviluppati; con una perdita in due giorni del Pil stimata dello 0,4% , con interi settori della vita produttiva della nazione bloccati fino a data da destinarsi, con l’insicurezza nella consuetudine sociale e civile: la compagnia di Arsenico è partita da Novara, Maria Alberta ha impiegato quasi dieci ore di viaggio per arrivare a Napoli, ciascuno dei suoi colleghi ha penato il dovuto per raggiungere il proprio luogo di residenza. La mia memoria si è compiaciuta di letture riscoperte in sedimenti che credevo perduti. Mi è rimasto un filo di rammarico perché qualche lungo periodo sabbatico di riflessione servirebbe sicuramente allo spettacolo dal vivo italiano: al Ministero per capire che l’ambiziosa riforma di qualche anno fa va sostenuta con risorse adeguate, che si può dire qualcosa in merito a certe nomine di direttori di teatri e non si può far finta di niente di fronte alla diffusa elusione del contratto nazionale di lavoro da parte di tutte le imprese di produzione; ai Teatri Nazionali che potrebbero interrogarsi finalmente su quale dovrebbe essere la missione “nazionale” e non solo preoccuparsi di raggiungere i parametri quantitativi richiesti; ai TRIC per trovare il coraggio di innovare un repertorio sempre più limitato a titoli di mercato e a nomi di richiamo televisivo; a tutti perché si ricominci a studiare e  a preparare progetti con il tempo necessario a garantire dignità artistica e non soltanto ottimizzazione dei costi. Insomma, da quella vicenda di ospitalità mancata il mio rammarico sconfinava in pulsioni ingenuamente totalizzanti. Forse perché ancora una volta questo nostro paese non ha saputo trovare il bandolo della matassa; e si deve, assolutamente, recuperare nei comportamenti pubblici, privati e culturali un bene dimenticato da tempo: come ci ha detto un altro narratore di pestilenze, “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. (A. Manzoni, I Promessi sposi, cap. XXXII)

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Accanto al titolo, Matera, 1971, di Henry Cartier Bresson

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