Giuliano Capecelatro
A proposito di "Cacciateli!"

Ordinario razzismo

Concetto Vecchio ricostruisce l'ondata razzista nella Svizzera di James Schwarzenbach nel dopoguerra, quando gli esclusi erano gli italiani. Quasi una metafora storica del nostro triste presente

È un urlo. Non quello di Edvard Munch – magari! – che scaglia dagli abissi dell’anima un’assoluta angoscia esistenziale. È un urlo anch’esso, certo, ma scevro di ogni tragica nobiltà, di ogni istanza ascetica. Ha un che di ferino, di torvo, di primordiale. È l’urlo rabbioso del branco che fiuta nell’aria quello che ritiene un pericolo, presenze estranee che l’istinto classifica come un attentato all’esclusività autosufficiente in cui il branco si crogiola.

Affonda nella notte dei tempi, quell’urlo, mette in scena orde, lotte belluine, sangue che chiama sangue. Cacciateli! È questa la riedizione dell’urlo ancestrale. Cacciateli! Cacciate quegli esseri che non sono come noi, che incrinano la nostra identità, l’agognata quanto illusoria purezza della specie. Cacciateli! Urlo che si propaga attraverso le epoche, attraverso i continenti, dagli Usa trumpizzati all’Ungheria di Viktor Orban. Genera muri, barriere, lessici spregiativi, vigilanze ringhiose, potenzialmente omicide: non passi lo straniero.

Cacciateli! È il titolo (con programmatico sottotitolo “Quando i migranti eravamo noi”, Feltrinelli storie, pag. 190, euro 18)) di un bel libro di Concetto Vecchio, oggi affermato giornalista in Italia. Ma la cui infanzia si colloca in Svizzera, in tempi non proprio felici. Almeno per chi svizzero non era. Quando sugli stranieri, e in maniera preponderante sugli italiani, che arrivavano in massa per lavorare, gravavano il peso del pregiudizio e di una discriminazione brutale.

Italiani erano i genitori di Vecchio. Giunti da Linguaglossa, Sicilia. E a Lenzburg, una scheggia di città in Argovia, Svizzera centrale, Concetto nasce nel 1970. Intorno a lui si inscena l’epopea mesta degli immigrati, dei lavoratori nella maggior parte stagionali, che arrivano per un periodo determinato, marzo-dicembre, poi tornano in Italia, con la speranza di poter rientrare in Svizzera dopo qualche mese.

Gastarbeiter vengono chiamati, lavoratori ospiti, a sancirne la completa estraneità, la temporaneità della loro mal tollerata presenza. Che viene sbattuta in faccia già alla frontiera: severi controlli medici; ma se è domenica, niente controlli: che attendano in stazione, col freddo o col caldo, fino a lunedì. Disagevoli, una volta ammessi, le condizioni in cui si trovano a vivere: baracche di lamiere, legno, cartone, fienili, stalle. Servizi igienici raccapriccianti, code per le latrine.

Normative e misure rigide ne regolano ogni movimento, in una reclusione senza sbarre. Portarsi la famiglia è un sogno che può durare anni. I bambini, poi, meglio non pensarci, a meno di tenerli nascosti in un armadio fin quando la polizia, vigile e solerte, non li scova. E allora sono angoscianti viaggi a ritroso per riportare in patria il figlio bandito. Talora con fantasiosi colpi di scena: riattraversare la frontiera col piccolo nascosto nel portabagagli, e pronto a occultarsi ancora nell’ombra di un armadio.

Eppure era proprio la Svizzera ad aprire le porte agli immigrati. Mentre l’Italia annaspava tra le macerie della seconda guerra mondiale – colpo di genio del fascismo che vagheggiava imperi e colonie – la Svizzera prosperava. Un miracolo economico che, però, aveva urgente bisogno di manodopera. Ed ecco che, dal 1946 al 1968 – riporta Vecchio – da ogni angolo dello stivale arrivano due milioni di italiani. Come dire un’intera metropoli in un paese che soltanto nel 1970 supera i sei milioni di abitanti.

Questa massa allogena genera la psicosi dell’invasione in ampi strati della società, ma più nella piccola borghesia, nel sottoproletariato che tra le classi dirigenti. Ed è a questo punto che entra in scena il protagonista di quella stagione, James Schwarzenbach. Un aristocratico, Schwarzenbach, uno scrittore, anche se guardato con scarsa considerazione dai suoi colleghi, un raffinato uomo di mondo. La sua personale albagia entra in sintonia con i crescenti malumori. Si impegna perché i confini, soprattutto quelli delle Alpi, siano meno permeabili. Dato paradossale: l’aristocratico, membro di rilievo della casse dirigente, dice di voler difendere i lavoratori autoctoni e di avversare un’imprenditoria affamata di profitti, che recluta manovalanze oltrefrontiera per arricchirsi sempre più.

Finisce così per siglare un patto con la National Aktion, un gruppo decisamente xenofobo. Diventa deputato e alla fine riesce a raggiungere l’obiettivo che si era prefisso, un referendum per ridurre la presenza degli stranieri sul mercato del lavoro. Non ce la farà: il 7 giugno del 1970 il referendum sarà respinto dalla maggioranza degli svizzeri, ma solo per un soffio.

L’ombra nera di Schwarzenbach (quasi un nomen omen, schwarz in tedesco significa nero) si allunga sugli schwarzenbacchini che, senz’altro all’opposto dell’originale quanto a raffinatezza ma altrettanto ferocemente determinati nella caccia alle streghe, oggi infestano il Belpaese. Esemplari il cui unico talento politico consiste nel fomentare masse che non aspettano altro che un capopopolo, un uomo della provvidenza. Né, improvvisati duci, si curano delle conseguenze esiziali.

Vale la pena di ricordare un brano illuminante di Elias Canetti in Masse e potere. «La massa aizzata… si propone di uccidere, e sa chi ucciderà. (…). Ognuno vuol parteciparvi, ognuno colpisce. (…). Se non può colpire, vuole almeno vedere come gli altri colpiscono».  Delitti razziali, al momento, si possono contare sulle dita di una mano. Ma le aggressioni, i pestaggi, le imprecazioni livorose, virulente nascono comunque dal desiderio di ferire, sopraffare, sopprimere. Morti solamente simboliche, certo, dell’altro, del diverso, dello straniero, ma di cui l’Italia, ogni giorno di più, offre esempi a bizzeffe.

Cacciateli! nelle vesti di un’inchiesta retrospettiva su un razzismo che fu, molto ben articolata e documentata, innestata su un’esperienza vissuta sulla propria pelle o quasi, è in realtà una potente metafora, quasi un’allegoria per l’immediatezza e la drammatica vivezza delle situazioni su cui si staglia l’immagine di Schwarzenbach, altezzoso angelo del male che mulina uno spadone catartico su una folla di visi inerme e sgomenta. Parla della Svizzera, ma quella Svizzera ha tutti i tratti dell’Italia odierna.

Basta ripercorrerne gli slogan, le parole d’ordine, e tradurli nel frasario del razzismo indigeno. Un florilegio istruttivo. L’epiteto più innocuo, che diventa sinonimo di italiano è Tschingg, cinque; perché gli italiani, soprattutto i settentrionali, hanno la passione del gioco della morra, subito vietato in moltissimi locali (Mora verboten); spesso arricchito dell’appellativo Sau, porco. In quegli anni Sau-tschingg, porco italiano, diventa espressione comune, risuona da un angolo all’altro della ridente Svizzera. Non molto dissimile dal “negro di merda” che oggi tanti italiani sbraitano con orgogliosa acredine.

Mentre Schwarzenbach prepara la sua ascesa politica, e si erge a surrettizio paladino dei lavoratori di casa, diventa un refrain abituale “La Svizzera agli svizzeri”, accompagnato dal vittimistico commento “ci sentiamo stranieri a casa nostra”.  Sui palazzi campeggia la scritta “Non si affitta a cani e italiani”. Non si contano le aggressioni violente né manca qualche omicidio. Ma la barzelletta più in voga nella Confederazione la racconta così: “Per strada camminano uno svizzero e un italiano. Come si distingue lo svizzero? Ha un coltello piantato nella schiena”. Un déjà vu: a nulla serve che le statistiche smentiscano inoppugnabilmente il luogo comune.

Fregoli psicologico, ammantato di accorato e singhiozzante patriottismo, il razzismo indossa mille maschere, parla mille lingue, dallo Iowa alla Pianura padana, ma è un’unica ottusa e laida bestia, Hyde forse ineludibile di quella che la razza umana ha definito civiltà.

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