Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Le città di Basilico

Omaggio alla fotografia di Gabriele Basilico: il suo occhio scava nelle contraddizioni delle metropoli. I vuoti, i pieni, le luci, le forme: «La città che mi interessa raccontare contiene una mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia»

Nulla in fotografia conta quanto lo sguardo. Sì, certo, la tecnica, il dosaggio della messa a fuoco, il calcolo del tempo dello scatto, la costruzione del set per chi vi fa ricorso. Ma è lo sguardo che incorona un fotografo come un maestro, un artista capace di distillare l’invisibile dal visibile, vocazione che per chi usa lo strumento della fotografia, sembra quasi una condanna che l’inchioda al qui e ora della realtà ritratta.

Lo sguardo è il filo d’Arianna per attraversare lo spaesante e ricco campionario d’immagini, oltre duecento, che il Palaexpo mette in campo in una mostra, intitolata Metropoli e in cartellone fino al 13 aprile, per rendere omaggio a Gabriele Basilico (1944-2013), protagonista di fama internazionale della fotografia italiana. E per dare un senso a quella sfida che ha caratterizzato come un’ossessione la sua intera carriera: catturare i volti nascosti e in perenne movimento di una città o di un paesaggio urbano. Di tutte le città che ha visitato e ritratto in quarant’anni di attività e che ora in questa retrospettiva siamo invitati a rileggere, come turisti che hanno perso la memoria e stentano a battezzarle e orizzontarcisi, anche se, stando ai visti sul passaporto, le hanno visitate più volte.

Un effetto straniante che rimanda come una firma doc al suo sguardo d’autore. E alle due contraddittorie modalità che fanno da bussola al suo colpo d’occhio. La prima è che Basilico ci toglie e si nega quasi ogni riferimento da cartolina. «Fotografare la città – ci spiega lui stesso in un video – non vuol dire scegliere le migliori architetture e isolarle dal contesto per valorizzare la loro dimensione estetica, compositiva, ma vuol dire per me esattamente il contrario. Cioè mettere sullo stesso piano l’architettura colta e l’architettura ordinaria, costruire un luogo della convivenza, perché la città vera, la città che mi interessa raccontare, contiene questa mescolanza tra eccellenza e mediocrità, tra centro e periferia, anche nella più recente ricomposizione dei ruoli». Lo spazio urbano insomma come mosaico di luoghi e non luoghi, centri e margini di periferia, palazzi firmati e dormitori popolari, come specchio dei conflitti che sono il sangue vivo di ogni metropoli, negazione tangibile di quelle profezie di progresso illimitato e sfrontato che popolavano le tele e l’immaginario dei pittori futuristi.

È quest’omogeneità d’intenzioni che rende quasi indistinguibili a prima vista gli scorci di città, cui la mostra dedica un’intera sala. Parigi, Berlino, Buenos Aires. Londra, Tel Aviv, Istanbul, Barcellona, Shangai. Tutte più o meno riprese dall’alto o da prospettive e angolazioni inedite, ci appaiono come visioni che scorrono veloci dal finestrino di un aereo. Solo quando l’occhio ci torna su, puoi scoprire le differenze. Perché poi ogni città ha la sua anima che riemerge alla distanza. La verticalità che rende inconfondibile New York. La nebbia che svapora dall’Oceano e avvolge San Francisco e il suo celebre ponte. Quei profili di deserto che sbucano dalle colline intasate di cemento di Gerusalemme. Quelle curve tortuose che riassumono l’addensarsi in un fazzoletto del principato di Montecarlo.

La seconda modalità che guida e organizza lo sguardo di Gabriele Basilico sembra invece condurci in direzione opposta. Verso uno spettacolo di spazi immobili. La maggioranza delle sue inquadrature, specialmente quelle in bianco e nero, ci rimandano l’idea di città morte, spopolate. Le strade sono deserte, senza passanti. Come a teatro quando si alza il sipario e il palcoscenico è vuoto. Tutto può accadere o è già accaduto. Esemplare il campionario di immagini di un premiato reportage che Basilico realizzò nel ‘91, per documentare la Beirut che si lasciava alle spalle anni di tragica guerra civile. Le facciate dei palazzi più antichi crivellate di colpi, gli scheletri di condomini messi a nudo da bombe e proiettili di mortaio, le strade ridotte a vicoli sconnessi e sterrati, invase da fili spinati e cavalli di frisia. Un panorama sconsolato di macerie che ci trascina in un tempo fuori del tempo. In una saletta un filmato girato in quei giorni, per raccontare la spedizione di Basilico e degli altri reporter che lo accompagnavano, dimostra che la realtà di Beirut era diversa. La città stava rinascendo. I bar riaprivano fra le rovine. Quei palazzi sforacchiati e semicrollati tornavano ad essere abitati.

Insomma, un artificio e una rimozione d’autore, che però non mortifica l’intensità della visione anche se la raggela. Basilico non è un fotografo da macchina a pronto uso o un reporter da fronte di guerra. L’apparecchio che usa è un dispositivo ottico che lo obbliga a servirsi di un cavalletto e a lunghi tempi di posa, come si faceva agli albori della fotografia. Ma lo ripaga con un’ampia larghezza di campo e un superiore nitore d’immagine. Nel filmato lo vediamo spazientirsi quando la strada dove ha piantato la sua postazione è invasa dalle macchine, attraversata da pedoni. Le tracce o le assenze di vita lui le scopre nell’alternarsi di vuoto e volumi, nella materialità delle cose, nella profondità delle prospettive di ripresa e non nelle testimonianze dell’agitarsi della folla o nelle vibrazioni pittoresche delle persone. Dieci anni dopo, quando torna a Beirut per raccontare a suo modo il tragitto inverso della città che rinasce a ritmo frenetico, usa lo stesso metodo e lo stesso metro da cronista distaccato. Cambia solo il ricorso al colore. Anche qui incroci di strade vuote e piazze deserte, ma invase da cantieri. Le gru che ritirano su monumenti e palazzi o ne innalzano di nuovi, le facciate delle abitazioni che hanno ritrovato lo smalto degli intonaci, ripristinato le decorazioni.

Una licenza e una cifra creativa personalissima. Ma anche un vizio da architetto. La professione per la quale aveva studiato e si era laureato e una vocazione a interrogare gli spazi e le forme che non ha mai abbandonato, neanche quando ha scoperto la passione per la fotografia. E il successo. Sin dai primi lavori, esposti in formato più piccolo, a tappezzare la sala d’ingresso. Quella applaudita ricerca sulle fabbriche in disarmo alla periferia di Milano all’inizio degli anni ‘70. E poi quel lungo lavoro in più tappe sul paesaggio italiano inizi anni ‘80. Palazzi dormitorio, ponti, raccordi stradali, angoli mai rifiniti e ridotti a discariche, insegne di negozi anonimi scelti come ritratto di un paese involgarito e omologato dal boom.

Un rifiuto, o forse un pudore, nel misurarsi senza contrappesi con la bellezza che Basilico riesce a superare solo a tratti. E affiora in alcuni fotocolor di straordinario impatto poetico sul centro di Roma, travolto dall’incanto dell’isola Tiberina o della spianata del Foro.

Ad evitare e compensare il rischio di una mostra per specialisti i registi del Palaexpo le hanno cucito intorno un ricco corredo parallelo di incontri, proiezioni di film e momenti di confronto sul tema della città.

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