Filippo La Porta
A proposito de “Il colore del buio”

Abisso Rothko

Alessandro Carrera analizza la celebre, straordinaria e inquietante Cappella Rothko in Texas: un ottagono che contiene 14 enormi tele nere. La luce diventa buio nel momento in cui si tenta di penetrarla

L’arte contemporanea è colpevole, fino a prova contraria (per parafrasare Orwell a proposito dei santi). Per la semplice ragione che, come dichiarò Paul Klee negli anni ’20, rischia di non avere pubblico a causa del suo oltranzismo espressivo e della rottura di un qualsiasi codice condiviso. Aggiungo: come la musica contemporanea (che mette in discussione la fisiologia stessa dell’udito umano), e al contrario del genere del romanzo (a parte le sperimentazioni senza ritorno di Joyce, oggi un romanzo di Roth o di Holluebecq o di Vargas Llosa non è molto diverso da Tom Jones, dal Chisciotte o dai Gioielli indiscreti). Eppure in alcuni casi soltanto l’arte contemporanea riesce a dare voce alle nostre inquietudini e a provocare un pensiero “non conforme”. Certo, richiede da parte nostra uno sforzo, quasi per “completarla”.

Prendete la cappella di Rothko a Houston (1971), o meglio le tele che ha dipinto per la cappella. È uscito un aureo libretto di Alessandro Carrera (poeta, romanziere e finissimo critico della cultura, oltre che massimo studioso e traduttore di Bob Dylan) che ci introduce magnificamente a questo spazio ottagonale – dove più che guardare siamo guardati – e a tutte le sue implicazioni filosofiche, artistiche, teologiche, letterarie, spirituali: Il colore del buio (Il Mulino). Carrera osserva acutamente che Rothko, probabilmente pittore modesto ai suoi inizi, è diventato un genio quando una voce interiore gli ha detto «Non fare il pittore, dipingi». A quel punto ha compreso di essere un filosofo della raffigurazione e ha spinto la sua arte verso territori sconosciuti. I suoi 14 giganteschi pannelli (3,35 x 4,50 metri), seduttivi e anche deprimenti nel loro nero, grigio, rosso e viola prugna, orlati di maroni e guizzanti di blu (per qualcuno evocavano i grattacieli di New York) chiedono tempo e ci invitano a una meditazione sul vuoto, sull’assenza, sul biblico «non ti farai idolo né immagine» (poi rielaborato da Kant). Carrera ci suggerisce una lettura di Rothko in senso “ecologico”, senza indulgere al sublime, benché l’espressionismo astratto derivi in parte dal romanticismo.

E ora una esperienza personale. Anche io ci sono stato, in quell’ottagono magico. Dopo un po’, nascosta da un boschetto, vi appare la Cappella di Rothko, progettata da Philip Johnson, di fronte a un laghetto con Obelisco Spezzato – due piramidi, una sopra l’altra che si toccano con la punta – realizzato da Barnett Newman in onore di M.L.King. La luce piove da una piccola fessura in alto, come nel Pantheon a Roma. Vi sedete su una delle panche, guardati a distanza da un discreto, e un po’ annoiato, custode afro-americano, e cominciate a pregare, anche se Carrera ci avverte che non ci si ferma a pregare o a meditare in un luogo così angoscioso, spalancato su un abisso. Eppure a me è successo, forse proprio per esorcizzare quell’abisso minaccioso. Cosa pregare? Non ci sono officianti o mediatori. Nessuno vi chiede nulla né vi invita a sottoporvi a qualche liturgia. Ciascuno può usare quello spazio come vuole. Seduto sulla panca mi è capitato di pensare: «Questo luogo sollecita innanzitutto una disposizione: passività ricettiva». Restare lì, guardando lo spicchio di cielo in alto, e rinunciare a qualsiasi volontà, a qualsiasi desiderio di trovare un significato. E poi aspettare, vedere semplicemente cosa accade. Potrebbe non accadere nulla, come nella maggior parte dei casi. Ma potrebbe anche accadere che scopriate ad un tratto una connessione per voi preziosa. La Cappella di Rothko non garantisce la salvezza. Non promette nulla, e anzi vi mette davanti alla “tremenda cosa nera” (dopo poco tempo l’artista si suicidò). Il visitatore capisce che guardando quelle tele – «sono solo delle facciate… l’arte è reticente», ha detto il loro autore – guarda se stesso, incontra la propria coscienza, la propria nuda, insondabile interiorità, il proprio vuoto sconfinato, e può provarne una vertigine, o comunque una intensa emozione.

Toniamo a Carrera. Nelle ultime pagine del saggio, scritto in una prosa critica affilata ed elegante, con accensioni liriche, scopriamo che il modello di Rothko, ebreo lettone immigrato con la famiglia in Oregon nel 1913, era la figura patriarcale di Abramo, riletto da Kierkegaard e dalla Torah. Chi o cosa deve uccidere Abramo? Suo figlio, cioè la sua creazione, la sua opera, al fine di testimoniare la fede. E dunque: se tutte le arti hanno bisogno, nietzscheanamente, di miti e di mostri, di creazione e distruzione, allora l’artista dev’essere un mostro e lasciare che la sua opera – dopo che ha tentato di ucciderla – si allontani da lui. Rothko si limita a costruire il colore del buio (un rettangolo è fatto di luce e di buio), la sua arte sopravvive in un atto di uccisione infinitamente differita. Perché? Forse perché tutta l’arte autentica contiene al fondo una domanda metafisica. Possiamo davvero rappresentare la realtà, la totalità (e la bellezza) del mondo, che è in sé irrappresentabile, come Dio nella tradizione ebraica, in quanto contiene l’illimitato? Secondo Dionigi l’Areopagita, fondamentale per il Paradiso dantesco, la luce divina diventa buia per chiunque tenti di penetrarla. Ed è una domanda dall’esito tragico, che si percepisce proprio nella luce nera delle lastre. Ma l’arte disfa categorie filosofiche e assunti religiosi. Seduto su una panca, contemplando i dipinti, la loro «geometria dell’immanenza che non tende a nessun oltre», ho provato quel mix di serenità e violenza – ma direi anche di frustrazione e senso di libertà – che Carrera associa all’opera di Rothko: è vero, Dio (la luce, la bellezza, il significato) si è ritirato per sempre dal mondo, però possiamo almeno indicare la cavità che lo ospitava, lo spazio vuoto che ne serba memoria.

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