Alberto Fraccacreta
Trent'anni dall'Ottantanove/6

Poesia del Muro

Quando il Muro è crollato, c’ero da poco. Ero una persona migliore di adesso. Allora dovrei ritornare a quei primi mesi, se non a quei primi istanti. Quando il mondo si disvelava davanti agli occhi nella sua primigenia verità... Riflessioni di un poeta nato nel 1989

«Presto sarò chi sono», scrisse Caproni correggendo Borges (il verso è tratto da Sfarfallone, nel cuore del Franco cacciatore; l’argentino diceva, invece: «Pronto sabré quién soy»). Il 1989. Havel è stato arrestato a Praga, in gennaio, a causa di una manifestazione commemorativa per Jan Palach. Presto sarò chi sono, anch’io. Non sono ancora nato. Alla fine del mese di marzo Pristina è occupata dai carri armati. Nello stadio di Hillsborough, durante il match di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forrest, a fine aprile, muoiono 96 persone, schiacciate dalle cariche degli hooligans. Proprio come all’Heysel. Tra il marzo e l’aprile Bob Dylan registra l’album più arcano e acquitrinoso della sua carriera: Oh Mercy. Prodotto con Daniel Lanois, autore di questa sonorità sgocciolante, Dylan esclude dall’album probabilmente le canzoni migliori: Series Of Dreams, finita nel Greatest Hits del ’94, e Born In Time, confluita nell’album successivo, Under Red Sky, ma del tutto modificata. Peggiorata, anzi. La versione del marzo-aprile ’89 esce nel 2007, con l’ottavo volume dei bootlegs, Tell Tale Signs. (Consiglio caldamente una terza versione del brano, reperibile su Vimeo.) Davvero la filologia d’autore oggi non può avere altra strada? La voce qui sembra stillare dalle note. Forse qualcuno non ha chiuso il rubinetto – come avviene in Danubio di Magris: la leggenda vuole che il grande fiume venga fuori da un rubinetto aperto –, oppure la musica riecheggia al modo di una moneta sfilata di tasca, del coperchio di un barattolo che fa i ghirigori a terra. Ma c’è anche nella voce di Dylan qualcosa di totalmente indefinibile che si riverbera nel fraseggio, quasi fosse un cumulo di sabbia mobile. La musica esula incessantemente. Sembra stia dicendo tutt’altro. Nulla che dica mai ciò che davvero vuole dire.

Il 17 aprile Solidarność viene riconosciuta in maniera ufficiale. Il Premio Nobel della letteratura, in ottobre, è assegnato allo spagnolo Camilo José Cela. Di lui non ho letto niente.

Nobel assegnato quest’anno a Peter Handke. Ricordo alcuni stralci del suo Canto della durata. Ma non riesco a tenere a fuoco il centro dei versi. Dove sta andando? Perché non hanno pensato a Enzensberger, fustigatore del pensiero totalitario? Nel suo ultimo libro edito in Italia, Panopticon. Venti saggi da leggere in dieci minuti (traduzione di Palma Severi, Einaudi, 2019), cita in un due occasioni l’Immacolata Concezione.

Il bridge di Born In Time suona come una profonda illuminazione dai confini più remoti della terra. Ciò è certamente a causa della scrittura biblica di cui Dylan fa ampio utilizzo (lo ha notato Renato Giovannoli in La Bibbia di Bob Dylan, Ancora, 3 voll., 2018). Se Series Of Dreams era una dimostrazione, retoricamente ineccepibile – con largo uso di reticenza e deissi –, dell’impossibilità di incatenare visioni in un disegno unitario, questa canzone è probabilmente la rivelazione del mirar fiso in forma di donna. «Proprio quando pensavo/ che eri andata, sei tornata./ Proprio quando credevo/ che fosse certo./ Tu eri in alto, tu eri in basso./ Tu eri così facile da conoscere./ Oh piccola, ora è tempo di alzare il sipario,/ sto soffrendo». È, in sostanza, la storia di due persone nate al tempo, prigioniere del tempo, murate in loro stesse, ancora incapaci di uscita. Niente uscita, nessun transito: il muro di Berlino, la cortina di ferro, la guerra fredda. Ma anche: l’ideologia capitalista etc. Non è tutto questo un essere nati al tempo?

Sono nato il 7 marzo dell’89. E ho sempre in mente una vignetta di Pazienza: un uomo che dorme saporitamente; il calendario segna il 6; l’uomo, nel sonno, biascica sorprendentemente: «L’otto m’arzo».

È meraviglioso che il 23 agosto 1989 due milioni di persone abbiano formato una catena umana per congiungere le tre capitali baltiche. Catena umana: i versi di Heaney. «Nulla ha superato…». Cosa? Quel muro di uomini, quella coscienza di piena umanità, di solidarietà tra gli uomini. E cosa c’era prima? Soltanto un muro. Ora quel muro non c’è più. Ma non c’è nemmeno la catena umana. Cosa ci salverà, allora, se continuiamo a essere murati in noi stessi? Chi ci troverà? Né il muro, né il non muro. «Lo troverà la bontà», dice Cormac McCarthy in La strada. «È sempre stato così. E lo sarà ancora».

Quando il muro è crollato, c’ero da poco. Ero una persona migliore di adesso. Allora dovrei ritornare a quei primi mesi, se non a quei primi istanti. Quando il mondo si disvelava davanti agli occhi nella sua primigenia verità. Al momento in cui il muro è crollato, prima che ne costruissi io stesso un altro, in me stesso. Che mi ha impedito la vista. Servirebbero piuttosto le viole di Philippe Jaccottet, capaci di «sgombrare la vista». Il muro divide, la catena umana unisce. Ma cos’è una catena umana senza la bontà?

Altri eventi dell’89: la rivolta in Romania, i Pink Floyd a Piazza San Marco, la prima puntata dei Simpson. «Quante cose accadono. Scadono. Cadono», ancora Caproni. Ancora Enzensberger: «È sempre così Nulla scompare/ e nulla rimane Ciò che fu/ è e non è ed è Questo/ nessuno lo capisce Ciò che ieri sera/ fu è facile a dirsi Com’è luminosa/ qui l’estate e com’è breve». Meno male che esiste la bontà.

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