Arturo Belluardo
Trent'anni dall'Ottantanove/4

Noi e lo zoo di Berlino

«L’inquadratura dall’alto mostrava due postazioni di guardia a ridosso del Muro, i sovietici da una parte, gli americani dall’altra. I soldati russi erano venuti fuori di corsa e si erano messi a inseguire qualcosa, una palla nera che schizzava irregolare»

Il rombo sordo, quasi un’esplosione soffocata, ci aveva colpito mentre eravamo davanti alla gabbia del panda Bao Bao: non faceva che grattarsi, si escoriava a morte, scarificando il pelo bianco e nero, indifferente ai visi contriti dei bambini tedeschi, che non amavano la purulenza di quelle piaghe. Per loro il panda era l’animale solare e giocoso del WWF, non questo relitto triste.
Di nuovo il boato: avevo alzato lo sguardo alla ricerca dei caccia a reazione; il cielo di Berlino era terso e striato da poche nubi, niente aerei da guerra nella capitale in pace da vent’anni.
“Papà, andiamo a vedere cos’è questo rumore?” mia figlia aveva quasi otto anni, era nata appena prima dell’11/9, non sapeva nulla della guerra fredda e indossava un cappellino rosso da mod appena comprato da Heimat Berlin a Prenzlauer Berg.
Guidato dalla manina di Arianna, mi sono trovato di fronte a una parete di plexiglass, una vasca enorme e trasparente dentro la quale nuotavano gli ippopotami.
Scoreggiavano.
Ogni peto, un boato, una propulsione subacquea di erba ed escrementi. Noi ridevamo alle lacrime, i tedeschi ci guardavano strani, nella loro indifferenza glaciale.
“Lo sai che qui a Berlino ci sono due zoo?”.
“E perché?”.
“Perché la città era divisa in due. Una parte comunista e una europea. Lo zoo era rimasto nella parte europea. E siccome i comunisti non potevano essere meno importanti degli altri, costruirono un altro zoo”.
“Ma ci sono gli ippopotami comunisti che scoreggiano nell’altro zoo?”.
“Mi sa di no”.
“Allora non ci voglio andare. Non mi piacciono i doppioni”.
“Sai, qui ne trovi tanti di doppioni, doppi musei, doppi municipi… c’erano due città in una, due Berlino, Berlino Est e Berlino Ovest, la stessa città separata da un muro”.
Per fortuna, mia figlia si era subito distratta, non ricordo se per un fenicottero o un oritteropo.
Avevo paura che mi chiedesse la storia, il perché del Muro.
Sarei dovuto andare di retorica piatta, di forze contrapposte, americani muscolari e Impero del Male, Reagan e Gorbaciov. E quell’orrenda canzone di Sting, Russians love their children too…

Come facevi a raccontare cosa rappresentava il Muro, se per te Berlino era da sempre stata così? C’eri nato con quella divisione e cercavi di collocarti sempre in una posizione laterale, da tangente che lo sfiorava, il Muro, senza mai affrontarlo. Perché tu eri sicuramente dalla parte Ovest, ma il tuo cuore andava a Est. Eri comunista, ma non ti spiegavi quella separazione, quello che rappresentava. Non accettavi la dittatura del proletariato, sapevi che il comunismo che volevi tu era quello degli Inti-Illimani, del Pueblo Unido Jamas serà vencido, quello di Che-Guevara. Non quello di Breznev e della cortina di ferro. Non quello degli incubi del Grande Fratello di Orwell.
Il Muro era il limite oltre il quale non si doveva andare, che sapevamo cosa ci aspettava al di là: tristezza, grigiore, oppressione. La sfida era come avere più uguaglianza e meno soprusi sociali senza trasformarci negli altri. Ma non era solo uno spauracchio: era anche una protezione. Alla fine, al di là della cortina di ferro c’erano i Whitewalkers e il Muro serviva a proteggerci dall’arrivo dell’inverno, dal gelo comunista che avrebbe invaso le nostre lande opulente.
Era un monito, un Finisterrae, un hic sunt leones.
E anche andare a Berlino era un viaggio nell’inconscio dell’Occidente, un lungo budello nero, un utero infinito; questo era stato il viaggio in treno del giovane musicista Hermann Simon in Heimat Zwei di Edgar Reisz, lo sprofondare in un tunnel interminabile e scuro, appena illuminato dalla luce dei finestrini dei vagoni.

Nel 1984 c’erano due mie amiche, due ragazze poco più che ventenni, Corinna e Oriana, che tornavano dalla Scandinavia dirette a Berlino con l’Interrail. Non erano scese alla stazione di Berlino Est, aspettando quella dopo. Non sapevano che il treno non si sarebbe fermato a Berlino Ovest. Furono costrette a scendere alla prima stazione della Germania dell’Est e ad aspettare lì l’intera giornata che passasse un treno a riportarle indietro.
La garitta alla frontiera di Berlino Est era in alto, su una base di cemento armato, costringeva le due ragazze a stare mento all’insù.
“Perché siete state tutto questo tempo nell’Est?” volevano sapere i soldati “Non abbassate la testa, vi devo sempre guardare in faccia”.
Le due ragazze dovevano tenere la testa reclinata all’indietro, a schiacciare le vertebre cervicali, nel buio e nel tanfo della notte berlinese, tanfo di gas di scarico e di filo spinato. Dovevano fissare lo sguardo su quelle guardie comuniste, dai cappelli enormi e innaturali, dovevano imprimersi bene nel fondo delle pupille l’immagine del potere che le teneva in pugno, legate a una bava di ragno. Sarebbe bastato lo schiocco di due dita.
Non dovevano abbassare lo sguardo, uno sguardo inerme, disperato, appeso.
Lo sguardo delle prede.
Tornato dal viaggio a Berlino con Arianna, ero finito, non ricordo come, invitato a cena da un professore di germanistica di Villa Mirafiori.
“E così hai portato tua figlia a Berlino? Bene, bene. Ma quella non è più la vera Berlino, è tutto così… uguale. Il museo della Lego a Postdamer Platz. Renzo Piano…” un’espressione di schifo gli si era dipinta sulla barba.
Era venuto fuori che lui aveva portato la seconda moglie in viaggio di nozze a Berlino Est, che quello era il tempo di vederla, la città. Ed erano venuti fuori i superotto.
L’inquadratura dall’alto mostrava due postazioni di guardia a ridosso del Muro, i sovietici da una parte, gli americani dall’altra. I soldati russi erano venuti fuori di corsa e si erano messi a inseguire qualcosa, una palla nera che schizzava irregolare.
“Era un coniglio, capisci? Un coniglio!” rideva il germanista, mentre la moglie rimaneva depressa.
La palla di pelo nero correva disperata, incalzata dai comunisti, e si era infilata in un buco sotto il muro. Dopo poco era riapparsa dal lato occidentale, dove i soldati statunitensi, attratti dalla caciara degli omologhi di oltre Muro la stavano aspettando al varco. E anche loro rincorrevano il coniglio tra mille risate.
Il coniglio scartava, piegava, rinculava.
Passava da una parte all’altra del Muro, accecato dalle fotoelettriche, terrorizzato.
Piangeva.
Anche se era solo un punto nero sulla parete illuminata dal proiettore, riuscivo a vederne lo sguardo. Era uno sguardo inerme, disperato, appeso.
E a me era venuta in mente una scena di Lettera a Berlino di Ian McEwan. Il romanzo è ambientato all’epoca della costruzione del Muro. Leonard, un agente del servizio segreto inglese è di stanza a Berlino: deve occuparsi dell’intercettazione delle linee telefoniche sovietiche nella zona Est. Diventa l’amante di Maria, una donna tedesca più grande di lui e vittima delle violenze del marito. Quando il marito abusa per l’ennesima volta della moglie, i due lo uccidono. Per farne sparire il cadavere, Leonard e Maria lo fanno a pezzi e lo rinchiudono in due valigie. Leonard si trova a vagare per la città con le valigie, cercando un posto dove abbandonarle, senza riuscirvi, anima persa da una sponda all’altra delle due Berlino.
Leonard si muove da un punto all’altro della città, mentre tutto precipita, tutto crolla, trasporta un peso terribile, un uomo ucciso, ma nessuno sembra notarlo, nessuno sembra farci caso, tutti presi dal loro breve futuro. Cosa succederà domani? Dove saremo domani?
E Leonard si trascina dietro il suo delitto, la sua colpa, e il suo sguardo è lo stesso del coniglio nero.
Una pallina impazzita, schiacciata tra due colossi incuranti e divertiti.
Una pallina come quella del videogame Atari Breakout.
Una pallina che a furia di rimbalzi mirati è riuscita a distruggere il Muro.
Un popolo di palline, che ha deciso di frantumare il Muro, il 9 novembre del 1989.
Erich Honecker, il presidente della Germania Est, aveva detto, appena pochi mesi prima: “Il Muro esisterà ancora fra cinquanta e anche fra cento anni, fino a quando le ragioni della sua esistenza non saranno venute meno”.

“Guarda papà” Arianna mi aveva indicato una vetrina “Ma è un pezzo di Muro quello? Lo vendono? Ma sono rimasti solo questi pezzetti piccoli?”.
“Qualche pezzo intero l’hanno lasciato come ricordo. Ti porto a vederlo”.
Eravamo andati a Postdamer Platz.
“Ma che schifo, papà! E’ tutto ricoperto di gomme da masticare!”.
Dal Museo della Lego, era uscito un uomo malmesso, sandali di Spandau, tuta da meccanico lisa con il logo della Trabant, barba grigia e lunga, naso solcato da venuzze bluastre. Trascinava a fatica una sacco fatto con un vecchio lenzuolo rattoppato.
Biascicava qualcosa e sputava per terra. Biascicava un nome, Helmut Kohl, e sputava per terra.
Aveva rovesciato il contenuto del sacco sul marciapiede della Platz, migliaia di mattoncini Lego, verdi, bianchi, azzurri, gialli.
Rossi.
E si era messo a costruire un muro di mattoncini colorati accanto al frammento di cemento e ferro ricoperto di gomme da masticare, nell’indifferenza dei passanti.

Il 26 ottobre scorso si sono tenute le elezioni in Turingia, uno dei Land dell’ex-Germania comunista. Land in piena recessione economica: dai dati forniti da Milena Gabanelli, nella sua Dataroom, esiste una sperequazione salariale di circa il 20% tra gli stipendi dei tedeschi dell’Ovest e gli stipendi di quelli dell’Est. Il dato elettorale più sorprendente è quello del partito neonazista che vola al 23,4%. I sovranisti dilagano, parlano di chiudere porti, di erigere muri. Come quello tra Israele e Territori Palestinesi. Come quello tra Stati Uniti e Messico.
Come quello.

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