Anna Camaiti Hostert
Trent'anni dall'Ottantanove/5

Muro & fantasmi

Gli americani, di solito così restii ad appassionarsi per la politica estera, seguirono con grande partecipazione la caduta del Muro di Berlino. Come fosse la liberazione definitiva da un fantasma: quello del comunismo

Nel novembre del 1989 ero arrivata da meno di un anno negli Stati Uniti, quando la notizia della caduta del Muro di Berlino arrivò sugli schermi televisivi attraverso le voci e le immagini delle più importanti icone giornalistiche americane: Peter Jennings, Tom Brokaw, Dan Rather, Ted Koppel. Rappresentò per gli americani un cambiamento epocale, determinando un senso di ottimismo assai diverso da quello spirito dark che aveva caratterizzato gli anni della Guerra fredda e che era rappresentato proprio da quel Muro eretto nel 1961.

Tutti i servizi giornalistici all’epoca mostrarono l’entusiasmo dei tedeschi dell’est, specialmente giovani, che cominciavano ad abbattere il Muro che li separava dalla Germania ovest e intervistarono i cittadini dall’una e dall’altra parte per capire il loro stato d’animo. Le storie che furono raccontate sullo schermo erano commoventi e drammatiche. Alcune fecero anche sorridere. All’epoca mi sorprese molto quell’immagine del Muro (di cui per una magica serie di eventi posseggo un piccolo pezzo) che cadeva sotto i colpi dei giovani tedeschi dell’est felici che sembravano aver ritrovano la gioia di vivere e la speranza in un futuro di pace.

Tra gli amici, i colleghi all’università, i miei studenti e perfino le persone per la strada, che pure sembravano informate di quello che già stava succedendo in molti paesi dell’est europeo e in particolare nell’Unione Sovietica, questo fatto epocale determinò tuttavia l’effettiva e definitiva consapevolezza che ormai il mondo comunista era destinato ad estinguersi. Come se tutto fosse coagulato in quell’evento. La caduta del Muro divenne il simbolo della caduta del mondo comunista, anche se in realtà l’Unione Sovietica di Gorbaciov era ancora in piedi.

E infatti una ricerca del Gallup dell’epoca mostra che non meno dell’82% degli americani osservò con attenta partecipazione l’abbattimento del Muro e il 50% prestò una attenzione particolare all’evento. Tra l’altro, la ricerca dimostrò come di solito gli americani prestassero uno scarso interesse alle notizie di politica estera in generale e uno ancora più scarso a quelle che non riguardavano direttamente gli Stati Uniti. L’impatto della caduta del Muro di Berlino sull’opinione pubblica americana invece fu così profondo da non avere precedenti. Determinò un interesse allargato a tutte le vicende dei paesi dell’est. Forse perché il fantasma del comunismo sin dall’epoca di McCarthy e anche prima si stagliava sull’America come una minaccia strutturale che andava a toccare l’inconscio e l’immaginario collettivo del paese. Era sempre stato evocato nei momenti più bui della storia americana.

Sono interessanti all’epoca le parole del vicepresidente dell’istituto di ricerca più famoso degli Stati Uniti, il Gallup, appunto: «I cambiamenti politici e sociali che stanno accadendo nell’Europa dell’est in conseguenza della caduta del Muro di Berlino adesso sono seguiti e accolti dagli americani con pochissime riserve. Questo particolare momento ha rappresentato uno spartiacque, un cambiamento rivoluzionario nel modo di seguire tutte le vicende dell’Europa dell’est e quelle di politica estera in generale». Il Pew Research Center nel corso degli anni seguiti al 1989 ha constatato che 6 americani su 10, che all’epoca avevano 8 anni o più, dicono di ricordare dove si trovavano e cosa stavano facendo quando la notizia fu annunciata. «L’evento fu accompagnato – affermano i documenti del 1989 – da una crescita dell’ottimismo negli Stati Uniti a proposito dello svolgersi degli eventi nei paesi dell’est europeo – l’88% previde un miglioramento della libertà politica e sociale nei paesi satelliti dell’Unione sovietica, mentre Il 71% pensò che il benessere economico dell’est europeo sarebbe cresciuto e il 74% che la religione avrebbe giocato un ruolo crescente nella vita delle persone.

La caduta del muro migliorò di gran lunga l’immagine di Gorbaciov. Il suo gradimento salì dal 40% del 1987 al 77% del 1989, dopo la notizia della caduta del muro». Per molti versi gli americani si convinsero che la guerra fredda era finalmente finita.

Un’inchiesta del Wall Street Journal condotta assieme a NBC News nel dicembre 1989 scopri che il 59% dell’opinione pubblica americana credette che quello sarebbe stato l’inizio di un rapporto positivo di lunga durata tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e in un’inchiesta del Gallup non meno del 65% che i due antagonisti sarebbero divenuti alleati entro il 2000. Infine un anno più tardi la maggioranza degli americani (il 58%) dichiarò di avere un’opinione positiva della super potenza comunista che era stata il nemico par excellence nei precedenti quaranta anni. E quell’opinione positiva che si riferiva soprattutto alla Russia di Gorbaciov è tornata negativa solo nel 2012, sempre secondo una ricerca statistica del Gallup, solo quando Vladimir Putin è andato al governo.

Che Mikhail Gorbaciov sia stato uno degli artefici della rivoluzione di quegli anni non è un segreto per nessuno. È tuttavia ancora di grande valore il suo giudizio su quei fatti. Il 31 ottobre scorso su Time infatti l’ex leader dell’Unione Sovietica ha scritto uno splendido articolo di commemorazione della caduta del muro di Berlino intitolato In 1989 the World Chose Peace; We Need That Vision Today nel quale ricorda come i leader europei di qua e di là della Cortina di ferro, incluso ovviamente lui stesso, scelsero di risolvere quello che sarebbe potuto diventare un conflitto violento in modo pacifico. Cosa non facile da raggiungere visti gli interessi in gioco e i risentimenti ancora presenti in molte nazioni europee dopo la seconda guerra mondiale. Questi furono superati tuttavia «da un complesso processo diplomatico che mostrò lungimiranza e allo stesso tempo coraggio e un alto senso di responsabilità. Il nostro obiettivo -continua Gorbaciov – fu quello di creare un Europa senza linee divisive. I leader che ci hanno seguito hanno fallito in questo obiettivo. Un’architettura moderna di sicurezza, un meccanismo forte per prevenire e risolvere i conflitti non è stato creato in Europa. Di qui i dolorosi problemi e i conflitti che tormentano il nostro continente oggi. Chiedo con urgenza di affrontare questi problemi e di riprendere un dialogo per la salvezza del futuro».

Quello che nell’articolo salta tuttavia agli occhi pero, non è tanto il richiamo alla ragionevolezza che oggi potrebbe risultare quasi ovvio, anche se il suo valore all’epoca fu inestimabile, ma quello che il leader russo scrive a proposito di chi abbia il merito di quanto è accaduto. «Quando mi viene chiesto chi io ritenga il maggiore eroe di quei tempi drammatici e di quel rivolgimento, io rispondo sempre: la gente. Non nego il ruolo dei politici. Loro furono molto importanti. Ma è stato il popolo – anzi due popoli – che hanno contato di più. I tedeschi che hanno dichiarato in modo deciso la loro volontà di unificazione e in modo ancora più forte di volerla pacificamente. E naturalmente i russi che hanno capito le aspirazioni dei tedeschi, che hanno creduto che la Germania era in realtà cambiata e hanno sostenuto la volontà del popolo tedesco. I russi e i tedeschi possono davvero essere fieri che dopo il tragico bagno di sangue della guerra si sono finalmente capiti l’un l’altro. Se non lo avessero fatto, il governo sovietico non sarebbe stato capace di agire come fece».

 

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