Danilo Maestosi
Al Museo del Corso di Roma

Labirinto Cagli

Dopo lunghi anni di silenzio, torna l'attenzione su Corrado Cagli, uno dei grandi del Novecento italiano, amato, incompreso e dimenticato. Una ricca retrospettiva esplora la poliedricità delle sue ricerche

Ritorno al disordine. Ecco, se proprio si deve trovare una definizione per catalogare la poliedrica creatività di Corrado Cagli, perché non inserirlo in questa terra di mezzo, che si sgrana, inesplorata, tra le trasgressioni delle avanguardie e il ritorno all’ordine che ne ha segnato, tra gli orrori di due guerre mondiali, l’evoluzione, l’apparente rientro nei ranghi? Strana storia quella di questo artista, tra i maggiori sulla scena internazionale del Novecento, che la critica e il mercato hanno incoronato e poi dimenticato, incapaci di seguire le sue continue trasformazioni, i suoi periodici slittamenti di stile. Lo riscatta da questo limbo d’incomprensione l’ampia antologica, curata da Bruno Corà e in cartellone fino al 6 gennaio, che il Museo del Corso gli dedica ospitando nella sede di palazzo Cipolla un campionario di opere che da ampio conto dei suoi andirivieni linguistici.

In parte, è merito dell’allestimento, che è ormai diventato un marchio doc della mostre di palazzo Cipolla. Una messa in scena che miscela spettacolo e informazione. Il primo ingrediente è la calamita del colpo d’occhio. Difficile resistere all’impatto della grande sala d’ingresso, che raccoglie lavori degli anni Trenta, decennio cruciale della sua affermazione e dei suoi travagli, ma è di fatto una sorta di introduzione al mondo espressivo di Corrado Cagli (1910-1976), nato ad Ancona, trapiantato da bambino a Roma e poi un continuo mutare di residenze, di fughe e rientri in Italia. C’è il suo autoritratto, un volto scavato da raggi di pennellate febbrili, che ricordano il raggismo di Larionov e altri pionieri del futurismo russo. C’è quella gigantesca ruota di legno sulla quale nel 1934 ha effigiato i dodici segni dello zodiaco, usando una tecnica antica come la pittura ad encausto, una stesura di cera calda per fissare i colori, immergendoli in una patina protettiva: una danza di figure stilizzate, assemblate in raffinati capricci visivi e tonalità cromatiche che sembrano avvolgere le figure nella nebbia di un tempo remoto e alchemico resuscitato. Ci sono, sulla parete di fronte, tre grandi tele di vedute di Roma, anch’esse immerse nei riflessi liquidi e pastosi della tempera ad encausto :paesaggi brumosi di chiese e rovine ,sui quali spiccano, come relitti in volo, armature vuote di cavalieri inesistenti, lance, elmi, spade, scudi, lembi di tessuti. Certo c’è anche un omaggio esplicito al surrealismo metafisico di De Chirico, che Cagli considerò a lungo un maestro ispiratore, per poi prenderne in seguito le distanze e condannare come una vanità quel suo professarsi pictor optimus e praticare una via alla pittura tutta rivolta e declinata al passato.

Ma c’è soprattutto una sorta di dimostrazione concreta di un teorema fondante del percorso creativo che Cagli andò elaborando proprio in quegli anni. Quello di primordio. Così battezzava una sorta di ritorno all’indietro, che non coincideva con quella contagiosa rivalutazione del classicismo che pervade molti artisti dell’epoca. Un ancoraggio dopo l’abbandono delle avventure iconoclaste delle avanguardie, abbracciato persino da Picasso, ma con una regressione verso un retroterra ancora più arcaico, innervato da una forza istintiva e poetica – orfica la definisce Cagli – proiettata verso il domani, che avrebbe consentito di elaborare una nuova mitologia, nuove storie con cui riscrivere la Storia. Insomma un vero e proprio ritorno al futuro, alla fonte ispiratrice di un disordine primordiale – l’approdo che suggerivamo all’inizio – come serbatoio di ricerca e ispirazione in direzione di orizzonti diversi.

Da lì nasce il manifesto per la pittura muralista – praticamente collimante con un analoga presa di posizione di Sironi – che impone alla pittura di abbandonare ogni fraseggio intimistico per misurarsi senza remore con affreschi destinati a raccontare l’epopea e i nuovi miti del presente e del futuro. Da lì nascono anche i guai e le incomprensioni con la critica. Da due fronti diversi. Quella grezza e sommaria dei fascisti ortodossi che, ignorando il favore che comunque gode da parte dell’ala più illuminata del regime,da Efisio Oppo alla Marfatti – e il suo stesso ingenuo fervore per il nuovo che vede avanzare – stigmatizzano come fuori linea le sue soluzioni formali. Guardano con sospetto persino le innovazioni della sua pittura murale – altro capitolo ben documentato qui a Palazzo Cipolla – che pure gli ha spalancato le porte della Quadriennale, della Biennale di Venezia, di prestigiose trasferte internazionali. Storcono il naso e spettegolano irritati su quei nudi più o meno lascivi di fanciulli in posa – questa mostra ne offre nella prime sale esempi di preziosa fattura – soggetti sui quali Cagli riversa nei lavori di cavalletto le proprie fantasie, quasi a confessare la sua omosessualità. Cercano in varie riprese la sua condanna come eretico dannoso e la ottengono alla fine, quando le leggi razziali lo mettono fuori causa come ebreo.

Cagli per fortuna riesce a fuggire in tempo. Prima in Francia poi negli Stati Uniti. E qui comincia tutta un’altra storia. Sul piano personale: Cagli si arruola nell’esercito americano, partecipa con l’esercito alleato allo sbarco in Normandia e alla caduta del nazifascismo, è tra i primi a varcare la soglia del lager di Buchenwald: le immagini dei sopravvissuti che gli vengono incontro e delle cataste di morti rivivono in una serie di disegni di grande forza visiva, cui la mostra riserva giustamente un intero capitolo.

E poi c’è la svolta professionale. La New York che lo accoglie, dove fissa per qualche anno la sua residenza, e dove espone in varie gallerie, spendendo un prestigio e una fama che lo accompagnavano già negli anni ‘30, gli spalanca un mondo nuovo, nel quale ricollocare e aggiornare la sua visione profetica del «primordio», il contatto con nuovi linguaggi, action painting, espressionismo astratto, pop art, messi in orbita da un mercato e da un gusto, che sta soppiantando quello europeo.

Eppure neanche questo basta a risparmiargli, quando torna ad esporre nel 1947 a Roma le critiche feroci – in galleria e fuori volarono addirittura dei pugni – dei suoi colleghi astrattisti del Gruppo Forma, che ruota attorno a Dorazio, Carla Accardi, Giulio Turcato, Achille Perilli. E continuano a contestargli le accomodanti posizioni giovanili rispetto al fascismo; ma in realtà probabilmente non gli perdonano il suo attestarsi in una terra di mezzo nella guerra in corso tra astrazione e realismo figurativo. Giudicano troppo morbide, decorative le sue ricerche nel campo aniconico, che da qualche anno ha avviato. Viziate da un’eleganza che a loro avviso è un lascito mai rimesso in discussione della sua passione giovanile per il liberty. Ignorando i risultati d’eccezione e la bravura sperimentale che ha raggiunto nel campo della ceramica: le sculture e i piatti esposti nella seconda sala, uno dei siparietti più apprezzati di questa rivisitazione, bastano da soli a liberare il campo da questi giudizi miopi e sommari. Che in realtà si rivelano dei pregiudizi quando ci si confronta con la produzione pittorica e scultorea che caratterizza la produzione di Cagli a partire dalla fine degli anni ‘40.

In America Cagli , frequentandone le figlie, si appassionò alle teorie di un matematico che inseguiva gli sviluppi di una geometria non euclidea e provò a materializzarle sulla tela o costruendo forme a tre dimensioni: reticoli di segni intrecciati secondo proiezioni razionali che fuse con un risvegliato interesse per la psicoanalisi lo precipitano verso la ricerca totalmente astratta di una quarta dimensione e danno vita e corpo a quadri e sculture di grande impatto visivo, come quella qui esposta , un gioiello architettonico realizzato per un memoriale contro le atrocità naziste.

Labirinti di linee e di spazi che indirizzano per anni anche i suoi disegni, ma non gli impediscono di fonderli con una mai rimossa vocazione per la figura in un campionario di grafiche , illustrazioni, quadri, forme plastiche, suggestivo e spaesante. Nessun problema per lui convinto che nell’immaginario di un artista anche le logiche contrapposte possono convivere. Ma un grosso problema per i critici che non sanno come catalogare questi andirivieni. E ancora meno riescono a seguirlo in altri esperimenti visivi: l’uso e la sovrapposizione di carte, la modulazione di chiaroscuri attraverso stesure con stampi pressati, la rincorsa a grovigli di forme partendo da moduli cellulari. Fughe alternate da altrettanti ritorni alla grazia della linea e all’uso del colore, che caratterizzano la attività di scenografo e produttore di arazzi. Una libertà che rischia spesso di precipitare Cagli nella maniera ma gli restituisce una capacità davvero unica di interrogare la vita. E investire noi visitatori con infinite, incalzanti domande. Unite al rimpianto che la morte a 66 anni gli abbia impedito di distillare dai suoi ritorni al disordine altri inimitabili, forse imperfetti, poemi.

Facebooktwitterlinkedin