Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Autodifesa di Caino”

Caino Camilleri

Arriva in libreria un piccolo gioiello postumo di Andrea Camilleri: una riscrittura biblica alla parte del "fratello cattivo", Caino. Un testamento amaro e buffo di un narratore popolarissimo quanto scomodo

È tornato Andrea Camilleri. No, non è la frase di un burlone da quattro soldi o di un povero spiritista. Il suo libro ce l’ho in mano; l’ho letto avidamente. Ricordate che l’11 giugno dell’anno scorso al teatro greco di Siracusa lo scrittore (che aveva già perduto la vista) si esibì con Conversazione su Tiresia? Un successo enorme, anche in tv. Poco dopo Camilleri annunciò che avrebbe fatto un secondo “spettacolo”. Sul personaggio forse più scomodo del mondo: Caino. Il narratore non poté realizzarlo: morì il 17 luglio di quest’anno. Però riuscì a dettarlo. E ora Sellerio lo pubblica (Autodifesa di Caino, 79 pg., 8 euro).

Lo si capisce immediatamente: Camilleri riabilita quella che per la Bibbia è la personificazione del male. Come se rispondesse a un’immensa platea di giurati, Caino dice la verità vera sull’uccisione di Abele, il fratello. Anzi, qua e là, a sedere sul banco degli accusati è proprio il “buono”, tipo manesco e arrogante. Tutto comincia, ovviamente nel giardino dell’Eden, uno splendore nel quale Dio a un certo punto prova un certo disagio perché capisce che in quell’orto rigoglioso ci manca qualcosa: «Si diede una manata sulla fronte: mancavano le statuine dei nanetti che sono sempre presenti in ogni giardino borghese. Provvide subito». Carini, certo. Ma muti. Allora il Signore «andò ad alitare sulla faccia di ogni nanetto. Essi in un attimo presero vita». E si mostrarono scalmanati: calpestavano le aiuole, scagliavano pietre, eccetera. Dio chiese all’angelo Michele di aprire la porta dell’Eden, e quelli si precipitarono fuori andando a finire sulla Terra. Chissà perché il Signore trattenne un nanetto al quale diede il nome di Adamo, il cretoso.

Prima rivendicazione di Adamo: mi sento solo, non ho una compagna. Venne accontentato. E a questo punto l’estro di Camilleri ci sorprende. Non fu Eva la donna di Adamo, bensì una bellissima femmina di nome Lilith. C’era da rispettare la famosa frase:« Congiungetevi e procreate». Adamo sapeva come fare avendo osservato gli animali. Ma lo fece in modo più dignitoso, insomma come lo facciamo noi da millenni. Le cose però non andarono bene: Lilith si sentì schiacciata e umiliata dal peso del suo “marito”. Cambiata la posizione, non cambiò la situazione: «Macari io! – disse Adamo – Non posso sopportare il peso di un altro essere umano su di me». Camilleri ci confida che Lilith aveva un caratteraccio, «e oltretutto era una protofemminista». Per farla breve comparve Eva, meno bella dell’altra, ma priva di pregiudizi. Nata dalla costola maschile? Manco per niente, ci andava di mezzo l’autonomia. E Camilleri spiega che «a quei tempi ogni essere umano aveva in sé l’esatto opposto del suo essere… Adamo incarnava l’essenza maschile e quella femminile. Era anche donna». Dalla tranquilla (stavolta) congiunzione tra Adamo ed Eva nacque Caino. «La conobbe» dicono i testi sacri. Un’ingenuità. Camilleri precisa: «Pensavamo che bastasse solo un amplesso per conoscere una donna. Ci impiegheremo secoli per capire che nemmeno dopo mille amplessi riusciremo a capire come è una donna». Gli possiamo dare torto?

Dopo varie e divertenti considerazioni sul serpente tentatore sull’albero del sapere o albero della conoscenza, veniamo a sapere che nacquero anche delle femmine, altrimenti addio alla procreazione. Tra Caino e Abele cominciarono le prime divergenze. Se Caino si mostrava addolorato e agitato, mentre Abele, molto permaloso, e alquanto arrogante, non faceva una piega. A questo punto Camilleri inserisce uno splendido brano tratto da Elie Wiesel, Nobel per la pace. Vale la pena riportarlo per intero: «Abele non si muove. Non fa niente per consolare il fratello, né niente per divertirlo, per calmarlo. Lui, che è responsabile della prostrazione di Caino, non fa niente per aiutarlo. Non si duole per niente, non dice niente. È semplicemente assente, sta lì, senza esserci veramente. Sogna senza dubbio mondi migliori, cose sacre. Caino gli parla e lui non ascolta. O ascolta, ma non sente. Ecco in che cosa Abele è colpevole. Di fronte alla solitudine, nessuno ha il diritto di nascondersi, di non vedere. Di fronte all’ingiustizia, nessuno deve voltarsi dall’altra parte. Chi soffre ha la precedenza su tutto. La sua sofferenza gli dà un diritto di priorità su di voi. Quando qualcuno piange – e questo qualcuno siete voi – ha diritti su di voi, anche se il suo dolore gli è inflitto dal vostro Dio comune». Una lezione di etica, molto attuale tra le altre cose.

Fermiamoci qui. Ovviamente Caino, dopo varie peripezie, uccide il fratello e lo seppellisce nella terra «che geme». Caino subirà varie traversie, ma alla fine, per la sua inventiva e generosità, sarà finalmente accolto dalla comunità. E sarà privo di quel corno che lo indicava come fratricida e malvagio.

La Sellerio, contemporaneamente alla stampa dell’Autodifesa di Caino, ha mandato in libreria il bel libro di Marcello Sorgi, palermitano, ex direttore de La Stampa e scrittore, intitolato La testa ci fa dire (174 pg., 13 euro). Perché questo titolo? Ce lo spiega l’autore: la frase ha un etimo curioso, e la sua spiegazione va cercata in due vocabolari siciliani: «diri la testa», «mi dici la testa e lu cori», «ho paura che». Tradotto è: «presagire», «ho paura che», «un animo mi dice che». Il testo di Sorgi ci racconta moltissime cose del conterraneo Camilleri (ovviamente parlano a lungo della cosiddetta “sicilitudine“). Camilleri ha lavorato come regista e docente dell’Accademia di Roma. Fu colui che contribuì in modo decisivo alla fortuna televisiva del commissario Maigret, a parte altri pregevoli lavori di palcoscenico. Quando si mise a scrivere un romanzo? Nel 1967 e lo terminò l’anno successivo: «Un tentativo, in qualche modo, di elaborare il mio linguaggio». Lo fece leggere a Nicolò Gallo, critico tra i più raffinati e in quel momento consulente editoriale della Mondadori. Questi gli disse «va bene», salvo qualche correzione o sottrazione. Nel ’68 Gallo morì. Racconta Camilleri: «E così io questo romanzo non riesco a pubblicarlo, mi trovo tutte le porte sbarrate. Credo che la ragione per  cui il testo veniva rifiutato fosse proprio il mio linguaggio». Il romanzo era intitolato Il corso delle cose (una frase del filosofo francese Merleau-Ponty).

Il grande affabulatore di Porto Empedocle (di cui è fotocopia letteraria la famosa Vigata di Montalbano) ha ricevuto una decina di rifiuti, «tanto che io smisi di scrivere e continuai a fare il mio lavoro di regista». Però, confessa, scriveva poesie «a sfondo sociale» e racconti, alcuni dei quali comparvero su testate di prestigio. Nel ’78 gli fu proposto di rendere il libro uno sceneggiato per la Rai. Doveva intitolarsi La mano sugli occhi. Durante il lavoro di redazione, il piccolo editore Lalli lo contattò: «Io il libro glielo pubblico gratis (di solito si faceva pagare, ndr) se mi mette nel titolo di coda Lalli Editore». E così il romanzo uscì dopo undici anni. A Sorgi dice che fu una bella soddisfazione: «Perché io ho sempre sentito la necessità della pubblicazione. Non per vanità personale, ma proprio sinceramente per poter raccontare la storia a qualcuno. Perché se tu sei un narratore la cosa la vuoi narrare, altrimenti ti scrivi “caro diario“ e te lo metti nel cassetto».

Camilleri ricorda il collega Guido Morselli che si uccise per i rifiuti editoriali (successivamente alla sua morte venne edito prima da Bompiani poi da Adelphi). «S’ammazza perché è come se lo tenessero imbavagliato. Credo che questa sia una condizione mostruosa». Non demorde Camilleri e scrive Il filo di fumo. Lo manda a Gina Lagorio, poi seconda moglie dell’editore Livio Garzanti. Questi arriva a Roma. L’appuntamento è in albergo. Camilleri è così nervoso che si rovescia la tazzina del caffè addosso. Si cambia, scegliendo un abito scuro, elegante. Appoggiato al banco del bar c’è un uomo scamiciato, che gli dice: «Ecco l’editore milanese che incontra il pirla di scrittore siciliano vestito come si deve». Camilleri controbatte: «Ecco il miliardario snob che finge di essere trasgressivo». Malgrado il micidiale incipit della conversazione, diventano amici, e lo scorbutico Livio pubblica Un filo di fumo nel 1980.

Successivamente, Camilleri ha in mano una ricca documentazione storica su una strage siciliana. Con questo titolo esce da Sellerio nell’84. Poi c’è un altro romanzo storico, La stagione della caccia, nel ’92.  Fu l’autore a “tardare“ la pubblicazione a causa di «un periodo molto brutto come scrittore…c’era qualcosa che non funzionava». Camilleri, che nel frattempo aveva conosciuto Leonardo Sciascia, propose proprio a lui di scriverlo. Risposta: «No, scrivilo tu, te lo faccio pubblicare da Elvira Sellerio». E così conobbe la gran signora dell’editoria italiana. Camilleri sforna un libro dopo l’altro. Prima romanzi storici, poi passa ai romanzi gialli con protagonista il commissario Salvo Montalbano. All’inizio era scettico. Fu Sciascia a convincerlo: «La gabbia più vera per uno scrittore è il romanzo giallo». L’idea iniziale è sempre un fatto di cronaca («io non invento niente»), poi ci ricama su, assemblando vari episodi.

«Ho lavorato molto su quel poliziotto di Vigata. Io i libri li scrivo tre-quattro volte. Non è che questo sia un peso, è un divertimento». Centinaia di migliaia di copie a ogni uscita. L’autore si accorge che la sua platea di lettori si allarga. Alle prime presentazioni il pubblico aveva un’età superiore ai 40 anni. Successivamente «notai, con La voce del violino, che cominciavano a esserci giovani di 20 anni, magari con l’orecchino, che ti facevano osservazioni intelligentissime…da quel giorno il mio pubblico ha cominciato ad abbracciare un arco di età che va dai 70 ai 18».

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