Pier Mario Fasanotti
Su “L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia”

L’odissea di Bruno

Bruno Bertoldi, classe 1918, fu vittima del massacro nazista dell'esercito italiano a Cefalonia dopo l'8 settembre. Fuggito dal lager, conobbe anche il gulag prima di tornare in Patria. Nella vita di un uomo la parabola del Novecento

Questa è la storia di un uomo che è arrivato all’età di cent’anni e, durante la seconda guerra mondiale ha attraversato l’inferno in Terra. Per colpa dei nazisti prima e dei sovietici dopo. Senza parlare dell’irresponsabilità di Badoglio e del Re Vittorio Emanuele, i quali hanno abbandonato, senza dare direttive tempestive e certe, migliaia di militari italiani dopo il 1943. Si chiama Bruno Bertoldi, nativo di Castelnuovo Valsugana. Con lucidità e memoria eccezionale ha raccontato di quando a Cefalonia i tedeschi hanno barbaramente massacrato i soldati italiani. Sergente della Divisione Acqui, quando fece ritorno a casa, gli fu chiesto di raccontare la sua odissea. Due uomini giunti al paese in motocicletta, gli dettero del millantatore. Il suo racconto risultava politicamente scomodo. La sua avventura è raccontata in un libro di Filippo Boni, L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia (Longanesi, 312 pagine, 19 euro).

Bertoldi è nato il 23 ottobre 1918 in una baracca di legno in un campo di concentramento, 40 chilometri a nord di Vienna: epoca di esodi, visto che il Trentino faceva parte dell’impero austro-ungarico, anche a seguito del plebiscito. Una vita segnata dalla guerra, dunque. Che prosegue quando Mussolini attacca Grecia e Albania, ignorando che le forze militari italiane sono pronte per il 40% (è il generale Graziani a confermarlo, all’epoca): ci pensò l’aviazione tedesca a completare l’opera. Al momento della controffensiva degli Alleati, Bertoldi sbarca a Valona (Albania): qui viene ferito e poi curato da un pastore. Malgrado tutto, l’Italia riesce a mantenere il controllo sulle isole dell’Egeo: la più grande è Cefalonia. Qui sbarcano quasi 12 mila soldati italiani. I partigiani locali si dimostrarono tranquilli.

Bruno trovò conforto a casa del pastore Taxin, che lo trattò come un figlio fino alla fine, pur avendo il primogenito al fronte (contro l’Italia). Tra italiani e greci c’è una buona intesa, alcuni si sono fidanzati con donne dell’isola. Bruno, come tutti, dormiva in caserma, ma appena poteva andava a casa di Taxin e lì trovava frutta, vino e altri cibi. Gli lavavano pure la biancheria. «Dopo quasi due anni – racconta il sottufficiale – gli uomini della Acqui vivevano il controllo militare di Cefalonia come una vacanza indefinita, piena di sole, di verde, d’affetti e di malinconia».

Poi le navi tedesche entrarono nel porto di Argostoli. In tutto, 1800 soldati. Al comando della Acqui c’era il generale Antonio Gandin.  Bruno faceva da autista del generale Luigi Gherzi. Dal comando generale italiano l’ordine di non sparare e, in caso di attacco nazista, difendersi. Tra i nostri ufficiali non c’era accordo sull’ordine tedesco di consegnare tutte le armi (che contraddiceva quanto aveva dichiarato Badoglio). Solo il capitano Mastrangelo e il colonnello Romagnoli volevano la guerra, gli altri optarono per la resa: «Loro sono pochi, ma in continente hanno gli Stukas». Gandin prese una decisione insolita: convocò i cappellani della Divisione. Tutti a favore della resa, con una sola eccezione. Dal comando di Brindisi intanto arrivò questa direttiva: «Le truppe tedesche devono essere considerate nemiche». Ci fu un tira e molla sulla consegna delle armi. Nel mare ci furono cannonate italiane, poi il cessate il fuoco. Ma ormai era  troppo tardi. A Cefalonia giunsero due idrovolanti tedeschi. Afferma Bertoldi: «Il nostro destino è in mano a un generale che sembra sbandare a causa di una decisione più grande di lui».

Poi gli Stukas arrivarono davvero: piovvero bombe e volantini che invitavano gli italiani ad arrendersi. Gli italiani fecero la controffensiva e il porto fu liberato. La quiete durò poco: i nazisti fecero sbarcare i rinforzi nella baia di Akrotiri. Il generale Gandin chiese un supporto militare, ma l’unico motoscafo partito da Brindisi fu quello della Croce Rossa. E arrivò in ritardo a causa di un guasto. Le torpediniere Clio e Sirio, con armi e medicinali a bordo, furono bloccate dagli Alleati. Intervenne anche Hitler in persona: «…a causa del tradimento della guarnigione non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana». In barba ai trattati nazionali e internazionali. Cominciò il massacro. Alcuni dei nostri si tolsero la vita. I nazisti mitragliarono anche la Sezione Sanità. Berlino decretò lo sterminio. Una certa clemenza fu usata solo nei confronti dei soldati fascisti e i sudtirolesi. Fucilazioni di massa a colpi di mitraglia. Racconta Bertoldi: «Gli italiani caddero umiliando i tedeschi con il sorriso». Trentasette dei nostri furono obbligati a «collaborare attivamente con la Wehrmacht per la vittoria del Reich». Il generale Gandin fu prelevato, ma di lui non si seppe nulla. Al processo di Norimberga (novembre ’45) il generale Lanz dichiarò che fu processato per alto tradimento. Molti testimoniarono che fu ucciso assieme ad altri 137 ufficiali.

Il capitano Renzo Apollonio, che si era dimostrato contrario alla resa, divenne l’interprete dei tedeschi e indossò la divisa nazista e il bracciale giallo con la scritta “Deutsche Kommandantur”. Negoziò con tutti facendo il doppio gioco. In Italia fu processato ma anche assolto.

Bertoldi si trovò di fronte a tre nazisti sbucati fuori dalla macchia e uno di loro gli urlò in tedesco: «Sei solo uno schifoso italiano! Porco italiano, ti ammazzo come un cane». Bruno alzò le mani e si diresse a passo lento verso una casa. Fu raggiunto da un aguzzino, con la faccia impiastricciata di nero. Gli disse:« Scappa, scappa, amico». Solo qualche ora dopo Bruno si ricordò chi fosse: Luigi Kofler, trentino, suo amico.

La strage continuò. I cadaveri furono o gettati in mare o bruciati. I greci, vedendo quel fumo, dissero: «È la Divisione Acqui che va in cielo». Bertoldi riuscì a entrare in una gattabuia di una caserma assieme a una decina di prigionieri. Un maresciallo tedesco entrava ogni mattina e gli diceva: «Lascia perdere gli italiani che sono dei traditori , tu non hai sangue italiano e diventa un soldato del Terzo Reich». Risposta sempre uguale: «Sono italiano e mi sento italiano».

Bertoldi e pochi altri una mattina furono stipati nel piroscafo Ardena, alla volta di Atene. Nel frattempo colò a picco un’altra imbarcazione con 850 prigionieri. Tutti morti. Bruno fu spinto in una cella, senza cibo né acqua. Dopo alcuni giorni si trovò in un vagone bestiame. Un tanfo tremendo, temperatura vicino allo zero, odore di escrementi e carne putrefatta. Erano tutti legati alla caviglia da una catena di ferro. Dopo 18 ore di viaggio e poche soste, furono fatti uscire: «Fuori, luridi pezzi di merda». Era notte fonda. I nazisti li colpivano a caso, con il gusto della ferocia. Iniziarono a camminare lungo un sentiero protetto ai lati da un filo spinato. Chi cadeva esausto era spacciato. Dopo due chilometri furono rinchiusi nelle baracche di un campo di concentramento. Periodici  i controlli. All’inizio tutti in fila, completamente nudi, al gelo. Un ufficiale tedesco li informò: «Benvenuti in Ucraina». Era il campo di Leopoli. C’erano anche francesi, polacchi e inglesi. La mattina li svegliava un kapò con secchiate d’acqua fredda. Un giorno una SS si avvicinò a Bruno che s’era dichiarato meccanico: «Tu che sei biondo come noi mi ispiri fiducia, non sei come gli altri, negri, vieni con me e non fiatare».  A Bruno fu ordinato di aggiustare un autocarro col motore fumante. Ci riuscì.

I tedeschi necessitavano di quattro meccanici in un altro campo, quello di Minsk, in Bielorussia. Stessa vita di prima, anzi peggio. Per sfamarsi raccoglievano rane nei territori dove lavoravano. Nel frattempo si diffondeva la notizia dell’avvicinamento dei russi. Si sentivano le cannonate dell’Armata Rossa. Per una serie di circostanze, Bruno e tre amici si buttarono da un treno e si trovarono nella steppa bielorussa, per entrare poi in una foresta. Dove andare? Non lo sapevano. Dopo varie peripezie, compreso l’assalto di un branco di lupi e la furia di un orso, videro una casetta con un comignolo di mattoni che fumava. Li accolse una donna anziana. E lì mangiarono e riposarono. In cambio i fuggiaschi misero a posto la recinzione, il tetto rotto e le pareti malconce.

Ricominciarono il viaggio. A un certo punto uscirono da un cespuglio dieci uomini armati. Erano partigiani polacchi. Furono trattati bene. Trascorsero l’estate in un accampamento, rendendosi utili. Un giorno furono circondati dai soldati russi in avanscoperta. Erano mongoli.  «Dovete partire subito» dissero. Destinazione Minsk, che era ricoperta di neve. Dopo dodici chilometri a piedi sotto la pioggia incessante, vennero chiusi in una cella. Poi altre marce forzate, senza mangiare. La fame li aveva trasformati. Quando in un vagone qualcuno moriva veniva spolpato e mangiato. Infine Mosca e a Tambov (Russia sud-occidentale). Ecco i gulag sovietici. A meno trenta gradi gli internati tagliavano alberi. Poi c’erano ore di indottrinamento marxista. Ancora in treno. Destinazione Uzbekistan, seimila chilometri dalla Valsugana. Poi Taskent, a raccogliere cotone. Chi alzava la schiena si prendeva un proiettile.

Bertoldi seppe da un suo aguzzino della capitolazione della Germania. I suoi tre amici erano morti. Altri treni, lentissimi. I detenuti furono consegnati agli americani, a Vienna. I liberatori non credevano ai loro occhi. Dopo Innsbruk, Bolzano, dove furono visitati dai medici. A Bertoldi fu diagnosticata la malaria. Il suo inferno terminò alla stazione del suo paese, Castelnuovo. Restò accovacciato su un pavimento freddo. La gente lo guardava, stupita. In testa aveva un colbacco. Era la vigilia di Natale. Provò a chiamare aiuto. Per caso fu soccorso da alcuni falegnami: «Guardate, c’è un soldato russo!». Bruno disse chi era. Poco dopo si presentò il padre, attorniato da decine e decine di abitanti. Sua madre lo aspettava a casa.

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