Attilio Del Giudice
La prima parte di un racconto inedito

Arcane procedure

«Vito Aiello si ammazzò il 22 maggio, alle sei del mattino. Alle sei e dodici minuti, per l’esattezza. Un’operazione condotta con semplicità e precisione: un solo colpo di rivoltella alla tempia destra»

Il fatto che si fosse ucciso a Torino e, per di più, in un albergo, generò un equivoco e lo mise in una situazione imbarazzante. Per una serie di motivi, che, per il momento, non abbiamo intenzione di raccontare (una brutta faccenda di gioco, debiti, strozzinaggio e casinò), Vito Aiello si ammazzò il 22 maggio, alle sei del mattino. Alle sei e dodici minuti, per l’esattezza. Un’operazione condotta con semplicità e precisione: un solo colpo di rivoltella alla tempia destra. Si prova un acuto dolore fisico, ma – questo lo diciamo per gli aspiranti suicidi – non bisogna esagerare, dura poco, pochissimo, poi, automaticamente, ci si trova nell’aldilà.

Idee preconcette sull’aldilà, Vito Aiello non ne aveva mai avute e anche tutta quella storia dell’inferno, purgatorio e paradiso gli era sembrata sempre piuttosto balorda; quando, però, si trovò, realmente, nell’aldilà, si rese conto di non avere elementi di giudizio sufficienti per un’idea complessiva chiara e certa, nemmeno sotto il profilo logistico e toponomastico.

In linea molto generale, poteva dire solo che l’aldilà è costituito da una miriade di grattacieli, assai più alti dei grattacieli d’America e che lui si trovava, appunto, in uno di questi, destinato, presumibilmente, ad alcune categorie di ex umanità, provenienti dall’Europa occidentale.

Faceva parte di una lunga fila di persone, in un lungo corridoio, dove, in fondo, dietro un tavolo, un’anziana signora, consultando un registro, eseguiva il compito di smistare negli uffici competenti, gli utenti, diciamo così, del servizio.

Vito Aiello, facendo la fila, non rilevò nei colleghi peculiarità allarmanti, eccettuata la circostanza che tutti, lui compreso, fossero alquanto trasparenti, benché tale trasparenza fosse più evidente in alcune condizioni favorevoli di luce. Notò, anche, che gli oggetti, del tutto simili a quelli della terra, avessero un che di soffice. Per esempio, sbattendo una porta, non si sentiva rumore e anche le voci e il brusio della gente giungevano alle sue orecchie come ovattati. Queste caratteristiche non gli dispiacquero, infatti non aveva mai potuto sopportare il trambusto e i rumori forti e, perciò, aveva sempre preferito vedere la partita alla televisione, piuttosto che subire il caos dei tifosi negli stadi.

Quando giunse il suo turno per lo smistamento, la signora anziana, con un sorrisetto ammiccante e guardandolo da sopra gli occhialetti, che portava appoggiati sulla punta del naso, disse: “Aiello? Lo scrittore?”.

Dovete sapere che Vito Aiello aveva sempre considerato gli scrittori come persone prestigiose, per cui gli balenò l’idea che potesse trarre, dall’errata classificazione, un qualche privilegio. Insomma non chiarì la sua condizione di non scrittore, né che l’equivoco doveva esser nato dalle modalità esterne della sua dipartita terrena. Una furba reticenza, la quale, pur ponendosi sul versante opposto ai comportamenti invadenti e alle esuberanze non richieste, viene ugualmente ascritta in quella costellazione emotivo-cognitiva, a cavallo tra simpatia e indegnità, che i più, generalizzando (forse un po’ troppo precipitosamente), chiamano “napoletanità”.

Del resto, la signora anziana non gli dette quei secondi di tempo necessari alla riflessione etica di un meridionale, perché subito aggiunse: “Lei, caro, deve andare nella stanza 328 del corridoio b!”.

La stanza 328, nel corridoio b, era la penultima. Vito Aiello bussò, attese, poi, cautamente, aprì la porta quel tanto da infilarci la testa. C’erano tre impiegati che, reciprocamente, si lanciavano aeroplani di carta.

“Sono uno scrittore, mi hanno detto di rivolgermi qui.”

Un impiegato, senza distogliere l’attenzione dal lancio, preceduto da un soffiare accurato sulla parte anteriore del velivolo, disse: “Lei ha sbagliato! Deve andare nel corridoio f, sullo stesso piano, stanza 421.”

Vito Aiello trovò la 421 nel corridoio f. La porta era aperta e la stanza era vuota. Entrò e si sedette. Dopo pochi minuti venne una signorina molto graziosa, allegra e sorridente.

“Buongiorno, signorina. Sono uno scrittore e…”

“Ah, sì! Guardi, il direttore è in assemblea, verrà tra poco. Io sono la sua segretaria. Ora consegno queste cartelle, poi sono da lei…un minutino solo.”

Andandosene, si girò e gli fece l’occhietto.

Tornò dopo una mezz’oretta. Sembrava ancora più fresca e gaia.

“Lei è uno scrittore? Mi farebbe un autografo?”

“Ma certo, volentieri”. Disse Vito Aiello.

“Ecco, me lo faccia qui, sulla camicetta!” E gli indicò col dito la zona più avanzata.

Certo, fare un autografo in quella zona, sulla camicetta di una che non usa il reggipetto, ma un profumo di mughetto, sicuramente francese, è impresa che richiede precise attitudini. Vito Aiello, però, se la stava cavando dignitosamente: aveva messo la firma e si accingeva a scrivere una frase carina, quando fu interrotto dalla comparsa improvvisa del direttore. Un bel signore elegante, sui sessanta. Capelli d’argento e un premolare d’oro. Entrando, disse: “Signorina, non si distolga dal suo lavoro!”

Lei gli mostrò la lingua e, uscendo, fece altre smorfiette, che a Vito Aiello sembrarono troppo confidenziali per non lasciar pensare a una loro preesistente, particolare, intimità.

“Lei è?”

“Aiello Vito, scrittore.”

“Da dove viene?”

“Oggi da Torino, ma sono di Caserta.”

“Ah, Caserta!…la reggia vanvitelliana!…lo sa che a Caserta ho fatto l’allievo ufficiale?”

Vito Aiello non lo sapeva, ma mostrò di gradire la notizia.

“Cortesemente, dovrebbe favorirmi il talloncino.”

“Il talloncino? Non mi hanno dato alcun talloncino.”

“Succede spesso. Il talloncino è indispensabile. Lei lo può ritirare presso la 923 del piano 42.”

Vito Aiello dovette mostrare un’espressione di tale sconforto, da impietosire il direttore, che lo fermò sulla porta.

“Vabbé, aspetti! E’ contro il regolamento, ma le voglio venire incontro. Lo faccio per la gioventù casertana. Venga! Ci arrangeremo da noi…”

Estrasse da un armadietto una scatola di cartone, di quelle usate nei negozi di scarpe e, con un forbicione da sarto, si mise a ritagliare dal coperchio un piccolo cerchio.

In questo lavoro procedeva lentamente e parlava tra sé e sé: ”Caserta, che bei tempi! E che belle donne!…”

Distanziò il cerchietto dagli occhi, come fanno, talvolta, i pittori con le loro opere ed esclamò con soddisfazione: “E’ venuto proprio bene! Dunque lei è scrittore. Scrittore,  quindi il diciotto…”

Con una biro scrisse il numero 18 sul cerchietto di cartone.

“Tenga! Lei, ora, deve consegnare questo talloncino, personalmente, al direttore della 421!”

Vito Aiello restò perplesso. ”Scusi, ma non è questa la 421?”

“Sì, certamente, questa è la 421!”

“Devo consegnare il talloncino al direttore? E chi è il direttore?”

“Questa è bella! Come, chi è il direttore? Il direttore sono io!”

“Allora devo consegnarlo a lei?”

“Per l’appunto! A me personalmente!”

Vito Aiello  gli restituì il cerchietto. Lui lo guardò, come se lo vedesse per la prima volta, su entrambe le facce. “Diciotto, diciotto… quindi lei è uno scrittore? Bene, bene…andiamo ad esaminare il fascicolo corrispondente.”

Il fascicolo corrispondente non veniva fuori. ”Che disordine, che disordine! Chissà la cretina dove l’avrà ficcato. Eppure lo sa che agli artisti ci tengo!”

Finalmente trovò il fascicolo e si calmò.

“Eccolo qua, questo benedetto fascicolo corrispondente!”

Il fascicolo corrispondente consisteva in una cartellina contenente un foglietto sul quale c’era scritto in caratteri cubitali: n.18.

Il direttore osservò il foglietto, lo girò, lo rigirò, poi, con tono perentorio, disse: “raggiungere immediatamente la stanza 649!”

“Senta –  disse Vito Aiello non vorrei abusare della sua cortesia, sa… non sono molto pratico…se volesse essere così gentile da darmi qualche ragguaglio: nella 649 che devo fare?”

“E’ semplice, semplicissimo! Lei raggiunga la 649, al piano di sotto. Troverà alcune persone decedute nelle ultime ventiquattro ore. Sono tutte portatrici di ottime storie per scrittori.”

“Cioè devo chiedere…”

“Le spiego: lei ne scelga una a suo piacimento e vada, col suo personaggio, al piano 207, dove troverà le salette per i colloqui. Si faccia raccontare la storia e ne tragga un racconto.”

“Un racconto breve?”

“Il racconto deve essere di trenta cartelle e deve essere finito entro domani, alle ore ventitré e trenta precise! E’ chiaro? E’ tutto chiaro?”

“Sì, grazie, ma, mi scusi, queste persone… questi personaggi sono italiani?”

“Oh! La persona intelligente! Bravo, bravo Aiello! Lei ha fatto un’osservazione acuta e pertinente! E’ da un anno che mi sto battendo su questo argomento. Gli italiani, devono essere abbinati a scrittori italiani! I francesi, ai francesi! Gli albanesi, agli albanesi! Gli inglesi… aspetti!.. Ecco…ho qui una relazione, l’ultima… ascolti!…”

Estrasse da una cartella un foglio dattiloscritto e si mise a leggere, mormorando, indecifrabilmente, alcune frasi, finché trovò il punto in questione, che lesse con voce chiara, forte e con cadenze, pause e ortoepia alla Gassman: “Nel contempo, in materia di abbinamenti, nell’emanare norme di regolamentazione, sarebbe auspicabile tener presente, quali primari requisiti, le comuni estrazioni etniche, linguistiche e socioculturali…” Alzò gli occhi dal foglio e sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi. ”Come vede i problemi non ci sfuggono. Bisogna avere un po’ di pazienza!.. Lei a che ora è morto?”

“Alle sei. Alle sei e dodici minuti per la precisione.”

Guardò l’orologio. ”Sono le undici e venti. Mi faccia pensare…sì, qualche italiano ci dovrebbe essere! Si, quasi certamente c’è! Vada, faccia presto! 649, al piano di sotto! Faccia le scale a piedi! Non perda tempo con gli ascensori!”

 

Nella  649 l’atmosfera era pesante, come in una sala d’attesa di dentista. C’erano una decina di persone, ognuna perduta in oscuri pensieri personali. Vito Aiello  arrivò trafelato. Prese fiato e gridò: “Sono uno scrittore! C’è qualche italiano tra voi?”

Due alzarono la mano. Un giovane e un uomo di mezza età. L’uomo di mezza età lo scrutò con diffidenza: “il suo nome, prego?”

“Aiello”

“Aiello? Mai sentito nominare!”

“Comunque uno di voi dovrebbe venire con me per il colloquio.”

“Vengo io!” Disse prontamente il giovane. E meno male, perché l’altro gli era venuto subito in antipatia.

Tredici ascensori fuori servizio. Altri otto occupati per ore. Impossibile farsela a piedi.

Raggiunsero il piano 207 che era passata l’una.

Il piano 207 era costituito da un labirinto di corridoi, alcuni illuminati da fari, simili a quelli dei lager, altri, completamente al buio. Centinaia e centinaia le salette per i colloqui.

Queste salette, ottenute con tramezzi di truciolato, erano assai anguste, appena lo spazio per contenere un tavolino e due sedie di ferro. Il piano appariva deserto. In un corridoio, male illuminato da una luce rossastra, videro una carogna di vacca in disfacimento, coperta quasi interamente da mosche.

Luca (così si chiamava il personaggio che Vito Aiello aveva avuto in sorte), per due volte, ebbe conati di vomito.

Si allontanarono rapidamente da quel luogo, turandosi il naso. Correvano appaiati, come fossero inseguiti. In realtà erano inseguiti da un fetore insopportabile. Imboccarono una galleria, vi regnava un forte odore di ammoniaca. Era una grotta infetta, dove una strana luce sembrava salire dal suolo attraverso vapori violacei. Non c’erano i tramezzi di truciolato. Fuggirono anche da lì e tornarono nella zona delle salette.

Questi sgabuzzini puzzavano maledettamente di muffa. Ne scelsero uno a caso. Entrando, constatarono che carta per scrivere ce n’era in abbondanza, ma mancavano penne e matite.

Luca osservò che se l’organizzazione centrale aveva provveduto alla carta, doveva aver provveduto anche alle penne. Vito Aiello, tra sé e sé, pensò: “Possibile che gli scrittori siano ladri di penne?”

La posta in gioco era alta. Stabilirono di perlustrare le salette, una per una, con metodo: Luca avrebbe condotto la ricerca nelle salette a sinistra di quella che avevano scelto, Vito Aiello avrebbe esaminato quelle di destra.

Dopo più di due ore (chissà se Vito Aiello avrebbe preso la decisone estrema di scrivere la storia di Luca col sangue), Vito Aiello sentì in lontananza gridare: “Ho trovato! Ho trovato!” Luca aveva trovato una biro blu. Corse verso il suo amico. I due si abbracciarono come per un’incontenibile gioia, similmente a due naufraghi, che, dopo un lungo tempo di disperazione, hanno intravisto sulla linea dell’orizzonte un lembo di terraferma.

Entrarono nella saletta e, finalmente, presero posto l’uno di fronte all’altro.

Luca era un ragazzo dai capelli ricci, d’un bel biondo luminoso, carnagione abbronzata e uno sguardo franco e leale. Soffriva eccessivamente il caldo. Gocciolava dalla fronte e, continuamente, si asciugava con un fazzoletto.

“Lei mi deve scusare – disse – se non la conosco come scrittore… sa, leggevo poco.”

“Senti, diamoci del tu. Io mi chiamo Vito.”

“Per me è un po’ imbarazzante… però, se le fa piacere… cioè, se ti fa piacere…”

“Ma certo che mi fa piacere! Ascolta, Luca, ti devo dire una cosa, che, forse, ti sorprenderà… io non sono uno scrittore.”

Vito Aiello aveva fatto questa confessione con leggerezza, senza immaginare, assolutamente, il tipo di reazione che avrebbe provocato.

Luca lo guardò con terrore, poi, improvvisamente, gli occhi gli si riempirono di lacrime.

“Luca, che ti succede? Che fai, piangi? Oddio, ma che c’è di tanto drammatico?” Il ragazzo non riusciva a parlare. Gli tremavano violentemente le labbra.

“Luca, ma che fai? Calmati! Ti prego!”

“Ma, allora, tu non sai?”

“Non so cosa?”

“Non sai? Se entro le ventitré e trenta di domani non hai scritto la storia della mia vita, siamo perduti. Sia tu, come autore, sia io come personaggio. Perduti! Nel giro di qualche minuto ci dissolveremo. Diventeremo nulla. Capisci adesso? Un nulla, per sempre!”

Vito Aiello, per la verità, quando aveva deciso la pistolettata alla tempia, non aveva calcolato la possibilità di un qualsiasi successivo tipo di vita; ma, ora, le parole di Luca lo mettevano in crisi. Non aveva il diritto di rovinare questo ragazzo.

“Ascolta, Luca: non è il caso di drammatizzare. Tu, ora, te ne torni nella sala dei personaggi, mentre io vado dal direttore e gli spiego come stanno le cose. Il direttore ha fatto l’allievo ufficiale a Caserta e mi tiene in simpatia.”

“No, no! Questo non è possibile! Dal momento in cui è avvenuto l’abbinamento, noi siamo legati l’uno all’altro. Se vai a spiegare la verità, per me è finita e anche per te!”

“Ma, allora, pensi che non ci sia un rimedio?”

“L’unico rimedio è che tu scriva un racconto sulla mia vita.”

“E va bene! Non è una cosa impossibile! Tu mi parli della tua vita… piano, piano, con calma, da farmi capire quali siano stati i fatti più importanti e io, poi, li descriverò. Insomma, imbastirò una storia, te lo prometto, una bella storia… vedrai che ci riusciremo! Il tempo c’è. Magari non sarà proprio… cioè… lo stile. Tu pensi che terranno conto dello stile?”

“E come no? Certo che ne terranno conto! Lo stile è tutto per uno scrittore!”

Vito Aiello, questa volta, restò perplesso. A ‘sto fatto dello stile non ci aveva pensato. “Ma che sarà mai lo stile? – disse tra sé e sé – E’ una cosa che c’è, cioè esiste, ma che cosa sia esattamente…”

“Senti, – disse ad alta voce – noi ci proviamo! Ma sì! Vedrai, un po’ di stile lo facciamo uscire. Su, calmati! Fumiamo una sigaretta… l’importante, secondo me, è trovare un metodo di lavoro. La carta non manca, teniamo pure la penna… fai vedere: è nuova, guarda! L’inchiostro è al massimo. Con questa possiamo scrivere un romanzo. Alla grande!…”

Gli dette una pacca sulla spalla con allegria, così che Luca, in qualche modo coinvolto nell’ottimismo di Vito Aiello, finalmente sorrise.

Nella saletta, per terra, c’erano sei o sette fogli accartocciati. Vito Aiello ne aprì uno. Conteneva cinque righe scritte in tedesco. Su un altro, invece, trovò un “incipit” lungo scritto in italiano.

Chissà perché pensò che da questi brani di prosa potesse trarre un qualche aiuto per il lavoro che si accingeva a fare. Lesse ad alta voce: “Paco, nel suo campo era il migliore. Un artista, s’era detto. Il suo campo, la professione che sin da ragazzo aveva esercitato con indiscutibile successo, era l’assassinio. Non per sé, per i fatti della sua vita, che, per carità, non avrebbe ucciso una mosca, ma per altrui committenza.  Circostanza, questa, che sembra proporre una diversa prospettiva morale. ‘I soldati in guerra – pensava Paco – non ammazzano per conto di altri? Di qualcuno che li paga con le quattro chiacchiere incomprensibili sulla libertà, fede, giustizia, nazione, socialismo e via di seguito?’ Paco, invece, privilegiava rapporti chiari e concreti. Svolgeva analoghe operazioni, ma per danaro. Il danaro può essere usato in svariati modi, ma è pur sempre indice di chiarezza, conduce subito al sodo, senza ipocrisie e genera rispetto e stima.”

“No, no! – disse Luca – scusami,  ma così perdiamo tempo! Non sono d’accordo. Se l’autore l’ha rifiutato, vuol dire che è difettoso. Che ce ne facciamo? E, poi, io che c’entro con questo Paco? Mica sono un killer…”

“Hai ragione! – disse Vito Aiello – davo uno sguardo, tanto per vedere come facevano gli altri… ma, hai ragione, dobbiamo andare avanti con le nostre forze! Ho un bel piano, ascolta: tu mi racconti la tua storia e io, mentre parli, prendo qualche appunto. Poi ti riposi un po’ e io mi metto a stendere il racconto. Che ne dici? Sei d’accordo? Mi sembra un buon metodo! Forza, puoi partire! Vai!”

Non vorremmo fare insinuazioni, ma in queste sortite ottimistiche, l’istinto del giocatore d’azzardo veniva a galla e Vito Aiello non aveva mai avuto attitudine a reprimerlo.

Luca, studente di architettura al secondo anno, era, come Vito Aiello, un meridionale: di Ischia, dove viveva con la madre, la bellissima Annalisa.  Quando non aveva ancora compiuto i tre anni, il padre sparì.

Quest’uomo era un pittore di talento e autore di videofilm sperimentali.

“Vado a Napoli. Prendo l’aliscafo. Ho bisogno di un paio di cassette u’matic che, qui, a Ischia, non trovo. Ciao, tesoro, ci vediamo alle otto.”

Così aveva parlato alla moglie. Da allora, di lui non si ebbero più notizie.

Annalisa de Luca, di nobile e antica famiglia amalfitana, amava il marito di un amore raro: tenero e passionale insieme.

Non riuscì a darsi pace. Si rivolse ai carabinieri, alla polizia, all’interpool, a un celebre esponente della camorra e, finanche, a un detective privato, titolare di un’agenzia che, nella denominazione, Il falco Maltese, prometteva bene.

Niente da fare. Nessuno riuscì a cavare un ragno dal buco. Il pittore geniale era letteralmente scomparso.

Alla bellissima Annalisa sembrò di impazzire dal dolore, finché, con gli anni, a poco a poco, alla disperazione furente, subentrò una malinconica e rassegnata nostalgia, resa sempre più struggente dall’alcol.

Questa giovane donna, dagli occhi verdi e dai lunghi capelli marrone, trascorreva intere settimane chiusa in casa, nella luminosa casa sulla collina di  Casamicciola, col suo whisky, i quadri e i videofilm del marito. Talvolta si perdeva, per ore e ore, di fronte a quelle pitture, nell’oscura convinzione che da quei segni astratti, da quei grumi informali di colore, potesse, improvvisamente, cogliere un piccolo segnale, una qualche nozione, una luce di speranza nel buio fitto e misterioso che l’avvolgeva. Spesso usava il videoregistratore per analizzare i lavori del suo uomo. Azionando il fermoimmagine e l’effetto moviola, studiava i videofilm, quadro per quadro, nell’intento di penetrare un mondo di immaginazione, che le era sfuggito per sempre.

Alle soglie dell’alcolismo, viveva queste esperienze come un delirio incomunicabile, una gioia ostile, terribile, da consumarci dentro la vita, una droga, alla quale, ormai, non poteva più rinunciare.

Luca aveva ricevuto un amore materno ambivalente e nevrotico, che si dipanava in affettuosità morbose e possessive, o si congelava in una paurosa estraneità, con lunghi e indecifrabili silenzi. Ma la natura ha le sue stranezze e non cessa di sorprenderci: Luca, imprevedibilmente, era cresciuto come il più normale dei ragazzi. Forse un po’ superficiale e conformista (la passione esagerata, per esempio, per le motociclette di grossa cilindrata), ma, complessivamente, equilibrato. Di fronte ai gorghi della problematicità interiore e dell’artisticità, si mostrava schivo e perfino indifferente. Forse, nella riluttanza di Luca ad ogni forma di complessità, si sarebbe potuto intravedere una sorta di meccanismo difensivo, sviluppatosi negli oscuri dinamismi dell’inconscio, sta di fatto che questo ragazzo rivelava un’allegra semplicità e un’estroversione naturale, che gli conferivano un alone di grande simpatia.

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1. Continua. Nelle illustrazioni, una serie di opere di Pablo Picasso dipinte in occorrenza del suicidio del suo amico Carlos Casagemas

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