Pierpaolo Loffreda
Le ragioni del premio per la Pace

Per l’Unione Africana

Il Nobel al premier etiope Ahmed Abyi premia un'idea che solo pochi anni fa sembrava un'utopia e che oggi invece è una speranza concreta: la nascita di un concetto di democrazia partecipata tutto interno alla tradizione africana

In tutto il Corno d’Africa (la regione vastissima e centro-orientale del continente, che comprende gli stati attuali di Etiopia, Eritrea, Somalia, Somaliland e Gibuti) esistono solo due popoli – con stretti legami fra loro – e decine di etnie, unite tutte da una lunga storia in comune e da un modo di sentire condiviso. Le rivalità aggressive tipiche della natura umana da un lato, e le politiche di dominio dall’altro hanno portato a divisioni e guerre. Ma anche la volontà di pace, convivenza e collaborazione può farsi sentire, con benefici per tutti.  Aggiungiamo il fatto che, dopo la decolonizzazione (e per quanto riguarda l’Etiopia, che non è mai stata una colonia, dopo il golpe militare del 1974) gli stati africani sono stati in mano a classi dirigenti locali predatorie, corrotte e totalitarie, mentre oggi qualche paese (Sudafrica, Ghana, Senegal, Burundi, Etiopia) sta cercando di invertire la rotta e porsi nella direzione di un progresso democratico e di una società aperta, abbracciando il modello liberale ideato in Occidente alla fine del ‘600 e giunto fino a noi con buoni risultati.

È questo il senso, a nostro avviso, del Premio Nobel attribuito, meritatamente, al premier etiope Ahmed Abyi, al governo dal 2 aprile 2018, dopo 44 anni di dittature spietate nel suo paese (esteso 4 volte l’Italia, con 120 milioni di abitanti e 3.000 anni di storia nazionale). Proviamo a spiegare con ordine. Il grande impero etiope del periodo axumita (durato 1.400 anni circa, dal VI sec. a.C. al X sec. d.C.) aveva esteso i suoi territori fino all’attuale Somalia, all’Eritrea, a Gibuti, allo Yemen e a parte del Sudan. Quando il negus Menelik II (il cui governo effettivo è durato dal 1889 al 1913) riuscì a riunificare e modernizzare il suo impero, Eritrea e Somalia avevano ormai preso strade diverse (o meglio, queste ultime erano state imposte dall’esterno), e si trovavano al di fuori della possibilità di intervento da parte del paese che aveva come nuova capitale Addis Abeba. Le due regioni, infatti, erano state dominate per secoli da diversi sultanati e potentati arabi, e, a partire dal 1882, erano state fatte oggetto delle mire coloniali italiane, mentre l’Etiopia si era sempre mantenuta indipendente, riuscendo a respingere, dalla metà del ‘600 agli anni ’80 dell’800, le mire aggressive portoghesi, inglesi, egiziane e sudanesi. In particolare, nel 1890, era stata fondata la colonia italiana di Eritrea, mentre nello stesso anno si erano stabiliti dei presidi militari anche in Somalia. Il caso dell’Eritrea era ed è particolare, perché etiopi ed eritrei sono uno stesso popolo, parlano le stesse lingue, praticano le medesime religioni e hanno in comune costumi, culture e modi di vivere.

I nuovi padroni italiani – oppressori e predatori come tutti i colonizzatori del mondo – arruolarono però migliaia di diseredati eritrei, i cosiddetti “ascari”, per aggredire come truppe mercenarie gli etiopi e cercare di invadere l’impero confinante. La battaglia di Adua (1896), in cui l’esercito di Menelik II sbaragliò in una sola mattinata il corpo di invasione italiano, diede una prima risposta a quei tentativi. Ma la frattura fra i due popoli rimase. Nell’ottobre del 1935, quando il regime fascista di nuovo iniziò ad invadere l’Etiopia, vennero impiegati anche gli ascari eritrei come truppe d’assalto. Gli scontri erano sempre molto cruenti, e gli italiani (padroni dell’Eritrea e degli ascari) usarono anche i gas letali per far strage della popolazione etiope. La vicenda si concluse, provvisoriamente, con 5 anni di occupazione militare dell’Etiopia (dal 5 maggio 1936 al 5 maggio 1941) e circa 500.000 civili etiopi sterminati. Nel 1941 vennero liberate anche Eritrea e Somalia, e nel dopoguerra, dal 1947, fu stabilita una confederazione fra la grande Etiopia e la piccola Eritrea, che da allora divenne la regione più ricca e sviluppata dell’intero continente, grazie soprattutto ai traffici commerciali marittimi.

Haile Selassie, a nostro avviso è stato uno dei grandi statisti del ‘900. Commise però, negli ultimi anni del suo regno, tre errori fatali: non trasformò il suo sistema da una monarchia assoluta ad una costituzionale (sul modello europeo), non contrastò a sufficienza il potere dei latifondisti e del clero, e, questione che qui più ci riguarda, decretò l’annessione dell’Eritrea allo stato unitario etiope, nel 1961. Questa decisione infausta – sbagliata sotto tutti i punti di vista – in un periodo in cui tutta l’Africa insorgeva per la propria indipendenza, portò alla nascita in Eritrea di un forte movimento, anche armato, di rivolta contro l’impero etiope, diviso in diverse tendenze politiche e religiose. Prevalsero, fra tutti, i combattenti secessionisti di matrice comunista, alcuni legati all’Urss e altri alla Cina maoista. Questi ultimi, durante il regime totalitario filosovietico di Menghistu in Etiopia (1974-1991), si allearono e collaboravano strettamente con gli insorti tigrini, del medesimo orientamento ideologico. Entrambi gli schieramenti usavano anche la stessa lingua (comune al Tigrai e a tutta l’Eritrea) ed erano guidati da due cugini, membri del medesimo clan (questione fondamentale in tutta l’Africa, purtroppo): Zenawi Meles in Etiopia e Isaias Afewerki in Eritrea. L’Urss inviò truppe aviotrasportate cubane a Menghistu che, con l’esercito dello stato centrale, riuscì a reprimere le due rivolte, con risultati terribili per tutte le popolazioni coinvolte.

Il conflitto si concluse nel 1991, con la caduta del regime filosovietico etiope. A quel punto i due cugini presero il potere assoluto nei due paesi, ma mentre Meles si convertì velocemente dal comunismo maoista ad un più ragionevole filo-atlantismo (e all’economia di mercato, sia pur viziata da un potentissimo controllo statale-burocratico, dalla corruzione e dai privilegi garantiti alla sua etnia d’origine), Afewerki instaurò in Eritrea (resasi indipendente, anche in modo formale, nel 1993) un regime ferreo e sanguinario: un mix letale di imposizioni tipo Corea del nord e soprusi del clan dominante. In questo modo il suo paese, da luogo fertile, rigoglioso e produttivo si ridusse ad una landa desolata di miseria e paura (come è avvenuto in tutte le dittature marxiste-leniniste al mondo). Le rivendicazioni degli uni sugli altri, e viceversa, crebbero d’intensità (acuite dalla paranoia complottista dei due regimi).

Si giunse così ad una fase acuta di rivalità fra i due cugini dittatori e alla guerra fra Etiopia ed Eritrea, combattuta ufficialmente per stupide questioni di confine, fra il 1998 e il 2000, che comportò circa 300.000 morti, grandi distruzioni e la chiusura armata delle frontiere.

Negli anni successivi si avviò un esodo di massa di profughi eritrei, in fuga dal regime oppressivo di Asmara (che, fra l’altro, obbliga tutti ad un servizio militare a vita, che impedisce di svolgere qualsiasi altra attività). Finora sono un milione circa gli eritrei ospitati in Etiopia, accolti come fratelli (mentre da noi ci si strappa i capelli e si urla all’ “invasione” per barche con 50 disperati), ma che, naturalmente, incontrano tutte le difficoltà degli esuli. Il dittatore etiope Meles morì nel 2012, senza lasciare rimpianti, ma venne sostituito da un nuovo rappresentante del regime, Haile Marian Deselegn, mentre Afewerki rimase – e resta tuttora, purtroppo – alla guida assoluta dell’Eritrea.

Ma nel febbraio del 2018 si verificò un fatto inaspettato: dopo due anni e mezzo di rivolta nonviolenta degli etiopi (con più di mille dimostranti uccisi per le strade), Deselegn si dimise da capo del governo, e il 2 aprile venne nominato premier Ahmed Abyi (chiamato con rispetto e familiarità dal suo popolo “il dottor Abyi”, perché ha seguito lunghi corsi di studio, anche all’estero – mentre da noi si denigrano i “professoroni” e “quelli che hanno studiato”, quasi fosse un crimine…). Abyi, quarantenne dalla mentalità aperta e dalle ampie vedute, formò un governo riformatore e liberaldemocratico, composto per metà da donne. Volle delle donne anche alla Presidenza della Repubblica e dell’Alta Corte, e una donna, Mideksa Birtukan, leader storica dell’opposizione democratica riparata negli USA dopo anni di carcerazione in patria in quanto dissidente, a guidare la Commissione per la riforma elettorale, fece liberare tutti i 60.000 prigionieri politici (fra i quali molti giornalisti), concesse un’ampia amnistia, legalizzò le organizzazioni di opposizione, penalizzò – ma senza torture né carceri-lager – i profittatori del vecchio regime. Ma un’altra delle sue decisioni fu quella di stipulare subito la pace con l’Eritrea, dopo 20 anni di Guerra prima e di tensioni armate poi.

Tutto va bene, ora? No, naturalmente, perché certi processi sono lunghi, e non indolori. Il dittatore eritreo Afewerki, infatti, è sempre saldamente al potere, anche se ha rinunciato all’applicazione dei velleitari dogmi comunisti, e, dopo pochi mesi di pace, ha richiuso le frontiere (per evitare che il suo popolo, oppresso proprio da lui e dai suoi, fuggisse in massa). Ma non c’è più guerra, e le cose potrebbero cambiare presto, anche perché le riforme economiche e la libertà di opinione ora diffuse in Etiopia sono contagiose, come la storia ha sempre dimostrato. È proprio la direzione giusta imboccata ad aver posto al centro dell’attenzione del mondo intero il premier Ahmed Abyi, che nel frattempo, dopo aver subito 4 attentati in poco più di un anno di governo, sta cercando di affrontare due nuove sfide. La prima consiste nel cercare di vincere, e assorbire, le tensioni tribali che scuotono il paese (come tutta l’Africa, da sempre, e che hanno colpito pure l’Europa negli ultimi 100 anni), motivate anche dalla spinta feroce dei vecchi dominatori, che premono per tornare al potere facendo naufragare la stagione riformatrice. La seconda, se possibile, è ancora più vertiginosa, e si esprime nel tentativo di mettere insieme (sul modello dell’Unione Europea) tutti i paesi della regione: i cinque del Corno d’Africa più il Kenya, la Tanzania e l’Uganda, per cominciare. Sarebbe un modo per ampliare l’area della democrazia, della libertà e delle garanzie (diritti e doveri uguali per tutti), e quindi per favorire il progresso economico, il benessere, l’indipendenza dal potere neo-coloniale. Per questi motivi il Premio Nobel dato ad Abyi è importantissimo: può fornire un esempio a tutti i governanti africani, e insieme dare una spinta a nuovi progetti di riforme e aperture.

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