Francesco Vasarri
“Lingua/Parole” per giovani poeti /6

Cartine,Vanità

Prospettive, intenzioni e linguaggi molto diversi rendono difficile una affinità generazionale: servirebbero delle mappe per sviluppare un dialogo, un possibile riconoscimento. E il “Ceppo Pant Pant” che vede domani giovani poeti risalire la Valle dell’Orsigna potrebbe essere un buon inizio…

Si svolge domani alle 17 a Orsigna la prima edizione del “Ceppo Pant Pant: Poesia Arte Natura Trekking nella Valle dell’Orsigna» organizzato dal Premio Ceppo Pistoia. Il presidente del Premio, Paolo Fabrizio Iacuzzi, ha invitato cinque giovani poeti a un reading di poesia e pensiero in movimento, come testimonianza della camminata da Pracchia a Orsigna che si svolgerà nella mattinata. Un omaggio sarà rivolto a Mario Luzi e Piero Bigongiari che risalirono la Valle dell’Orsigna nel 1957.
Tra i poeti partecipanti (oltre a Luca Buonaguidi, Dimitri Milleri, Bernardo Pacini, Giulia Venturi), Francesco Vasarri, protagonista oggi di questa rubrica dove giovani poeti definiscono una parola comune alla loro generazione e una parola che identifichi la loro poesia. Nato nel 1987, si è laureato con una tesi sull’entomologia nella poesia italiana contemporanea. Ha pubblicato il libro di poesie “Don Giovanni all’ossario” (Anterem 2016). Nell’antologia “Poeti italiani nati negli anni 80 e 90” a cura di Giulia Martini (Interno Poesia 2018), a cui questa rubrica è ispirata, è presentato da Marco Corsi.
La sua poesia qui pubblicata, fra ironia e disincanto mostra le pieghe di una lingua che si gioca tutta negli scarti del significato per rovesciare ogni pretesa pedagogica di intervenire sulla realtà. Ma la falsa pretesa di insegnare il “giusto” e il “vero” è rivolta non solo e non tanto ai bambini a cui il poeta insegna, secondo il suo mestiere di educatore, ma confligge soprattutto con la meditazione sul bambino che è stato. La poesia è un viaggio nei relitti di una educazione umana esplorati nei guasti della lingua e al poeta non resta altro, allora, che farsi maniaco classificatore di questa colonia animale, umana.

***

Insegna ai bambini. Gran miele mieti.

Offri amorosi in prima i tuoi gameti, scala,

dà in quinta, dà in oltremarcia

loro del giusto e del vero.

 

Dì pure che nel giardino al principio era un pero.

Tanto cosa ne sanno. Che danno, che letizia ne avranno.

Resta nel pedagogico

mistero, dove non troveranno

lo zoccolo, la coda e la faccia vera

non troverai. Che tanto

non l’hai voluta davvero guardare mai.

 

Cartine

Sull’applicabilità piena di un concetto generazionale mantengo, passando o meno da Macrí, almeno qualche dubbio. Ci sono però, comunque, dei dati di contesto in effetti simili: la situazione complessiva mi fa pensare al finale del King Lear, quando sono quasi tutti morti e gli ultimi rimasti, affatto “déraciné”, si ritrovano in pieno proscenio tra i cadaveri illustri. L’eredità più evidente, come sappiamo, è il fardello dei tempi tristi; ma senza che si capisca se il ruolo più prenotabile sia quello di Edgar o di un Edmund precocemente defunto. Di genitori equi e capaci ne abbiamo avuti, mi sembra, pochissimi; c’è qualche brava zia, ma giustamente preferisce più scrivere. Superato questo punto, le prospettive, le intenzioni e i linguaggi sembrano molto diversi, anche se, mi pare, tutti più o meno in ripartenza da linee che fanno capo, con gradinate intermedie, al crogiolo di opposti degli anni Sessanta. Tanto bordeggiamento di realtà – forse favorito dall’attuale gentrizzazione dell’allotrio, che odora sempre di Croce anche se al segno meno -, lirismo che resta vivo al di sotto dei suoi molti travestimenti (minimalisti, sperimentali, storicistico-eruditi…), versi e testi molto lunghi o molto brevi. Credo insomma che si possa percepire un certo lavoro, una certa onestà e qualche possibile, sempre difficile fiore, purché non venga l’abbaglio o la voglia di contrabbandarsi nel nuovo – che è tale, spesso, a cose fatte o se si preferisce ad autori morti. Ciò che mi sembra più utile, o almeno quello che spero, è che da ricognizioni come questa si possa sviluppare un dialogo, di incontro o di scontro che sia, ma comunque di reciproco riconoscimento: non con l’idea, ingenua e impossibile, di camminare compatti verso la meta, ma cercando almeno di dividere, quando si può, delle cartine e delle istruzioni sulle toilette delle aree di sosta. Alla fine, generazione in senso biologico significa questo, solo essere vivi, più o meno contemporaneamente, all’incirca nello stesso posto.

Vanità

Credo mi abbia sempre attirato, della poesia, il suo sentimento di gioco perso all’origine: partita truccata o falsa partenza. Mi viene quindi spontaneo iniziare dalla vanità come “vanitas”, consapevolezza della rarissima utilità dello sforzo come del risultato; e in fondo penso si tratti, come dicevano in modo non sorprendentemente simile Caproni e Zanzotto, di reagire con l’istinto a quello che non è io o, ancora più in basso, di secernere o espellere una cosa a metà tra la scoria e lo scudo. A spingere poi verso il lavoro, anche accanito, sulla deiezione, è forse la vanità in senso stretto, con la speranza tutto sommato piccola che quel gonfiarsi dell’io (sia esso propriamente in lirica o nel più diretto degli “engagement”, che penso poggino comunque, mica tanto emendabili, sulle estensioni del soggetto) produca contemporaneamente anche una minima galla o bolla nella specie. E che quindi, più terra terra, la voce tanto aspettata non rimanga nel suo consolatorio o disperante cortiletto ma possa avere una parcella di valore anche per qualcun altro. D’altronde, è vano anche il pertugio strumentale del muro, portante o meno, dal quale ricavare un passaggio, una soglia interna, una finestra; o anche soltanto, in base alle necessità del momento, un buco relativamente sicuro dove riporre caramente qualcosa che andrebbe perso. Quindi, provando una traduzione o una mediazione tra diversi tipi di polvere – da quella, più attuale di quanto spesso si pensi, del “memento mori”, alla metaforica iridescenza dei lepidotteri – provo a mettere insieme un po’ di parole, sperando che qualche volta, anche di straforo, suoni e sensi si ritrovino, pure malgrado me, in una loro forma di accordo. Nel mentre rileggo libri, ne trovo ogni tanto di nuovi, lavoro, organizzo qualche uscita pubblica, cerco di capire se ne valga la pena. Aspetto che ricominci, tra diarree e stipsi, la “dittatura”, a sospendere per un pochino l’orizzontalità del tempo e a richiedere, ammesso si possa, di dare un senso al suo cerchio.

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi)

 

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