Flavio Fusi
La lunga stagione dei populisti

Teoria del matto

In Salvadòr, Nayib Bukele non fa nulla contro la corruzione ma licenzia i ministri con un tweet. In Ucraina, Volodymir Zelensky governa in diretta tv. Eppure il "popolo" li ama. Insomma, il mondo è pieno di Trump & Johnson: ai tempi di Nixon la chiamavano "teoria del matto"

«Purtroppo, in America, abbiamo un presidente pazzo». Dall’alto della sua onorata carriera, il regista Brian De Palma si può permettere questo lapidario giudizio, senza timore di essere fulminato all’istante dall’ennesimo tweet scagliato dai giardini della Casa Bianca. Dunque, “the Donald”, questo omaccione ingombrante e volgare che occupa oggi la stanza dei bottoni della grande potenza occidentale sarebbe un pazzo inciampato per caso nella storia americana: una eccezione, un’anomalia, una parentesi destinata a non lasciar traccia nel prossimo futuro.

La questione, purtroppo, non è così elementare come la si può vedere dalle amene colline holliwoodiane, e nella stampa a stelle e strisce il dibattito è aperto da tempo, così come si conviene in una grande democrazia. Chini al capezzale del presidente, solo pochi mesi fa, in occasione del vertice clamorosamente fallito in Corea del Nord (che spettacolo: un braccio di ferro atomico tra due pazzi scatenati!) non pochi analisti hanno così riesumato la dimenticata “teoria del matto”: the Madman Theory.

Vediamo. Nel 1969, in piena crisi del Vietnam e al culmine della guerra fredda, l’amministrazione Nixon lavorò per far credere al Cremlino che il presidente americano era «irrazionale e imprevedibile», pronto dunque a scatenare una guerra nucleare nel braccio di ferro con l’avversario. Così lo stesso Nixon si confessa al suo capostaff, H.R. Haldeman: «Vedi Bob, io la chiamo la teoria del matto. I nordvietnamiti devono credere che io sono pronto a tutto per vincere questa  guerra, anche a costo di buttare la bomba…».  Va da sé che Tricky Ricky – il vecchio imbroglione della Casa Bianca – non aveva scoperto nulla di nuovo. Cinquecento  anni prima, Niccolò Machiavelli addestrava così il suo principe: «Come egli è cosa sapientissima simulare in tempo la pazzia…».

Dunque: pazzo o non pazzo? È un fatto che Richard Nixon fosse un grande bevitore e consumatore di pillole, che soffrisse di insonnia, di depressione, di ipertensione. Ma lasciamo questo vecchio presidente al suo destino: la teoria del pazzo fu considerata dai più avvertiti strateghi politici americani «inefficace e pericolosa» e presto abbandonata come una pittoresca esagerazione. Oggi occorre forse un ripensamento, vista la moltitudine di pazzi che occupano la scena internazionale e che piegano l’agenda politica del proprio e degli altrui Paesi a scomposte scalmane. Negli ultimi mesi ha fatto irruzione sulla scena il biondo, opimo, scatenato Boris Johnson, vero gemello di Donald Trump. In poche settimane il leader conservatore britannico è riuscito a conquistare il partito, mettere in mora il Parlamento, espellere i maggiorenti tories, ri-perdere il partito, passare in minoranza, infine avvolgere in una nebbia impenetrabile i destini della più antica democrazia europea.

Scrive sul New York Times il giornalista britannico James Butler: «Con Boris Johnson finisce l’Inghilterra: non con un’esplosione, ma con un falò di bionde ambizioni». Il ritratto dell’uomo è impietoso: «Il signor Johnson – la cui pigrizia è proverbiale e il cui opportunismo leggendario – è un uomo ben avvezzo ai tradimenti, un imbonitore che titilla i pregiudizi del suo pubblico per facili guadagni. La sua vita personale è incontinente, la sua carriera incoerente». Boris e Donald, gemelli separati dalle due sponde dell’Atlantico. Protagonisti di quello che ancora il New York Times chiama «the rise of radical incompetence»: l’ascesa dell’incompetenza radicale. I due leaders, sottolinea il politologo William Davies, «rifiutano con orrore l’idea stessa di un governo come impresa complessa e basata sui fatti». I guerrieri del populismo – avverte Francis Fukuyama – sono praticamente inutili: «Possono solo arrestare la crescita economica, esacerbare le contraddizioni e peggiorare lo stato del Paese». Ma l’onda è lunga, e Donald e Boris sono da tempo in buona e numerosa compagnia. In Brasile il presidente Jair Bolsonaro, dopo aver messo a ferro e fuoco l’Amazzonia per incompetenza e complicità con gli incendiari, scatena una guerra mediatica contro il presidente francese Macron, messo alla berlina per aver sposato una donna più anziana. «Mia moglie ha trenta anni meno di me», sogghigna sui social compiacenti il successore di Lula: la variante brasiliana della teoria del matto è un impasto di bullismo, machismo, incompetenza e aggressività.

Il suprematismo politico e presidenziale ha mille incarnazioni. A Est, il turco Erdogan riempie le patrie galere di avversari politici, magistrati e giornalisti; perde le elezioni a Istanbul e annulla il voto; incassa una nuova sconfitta e minaccia rappresaglie. In Ungheria il presidente Viktor Orbàn alza barriere di filo spinato per difendere i magiari dall’invasione turca e in casa propria sbatte in cella i barboni che osano farsi vedere per le strade di Budapest.

Ancora più a Est, il nuovo presidente ucraino Volodymir Zelensky (nella foto) è un comico che ha fatto fortuna con la serie televisiva Servitore del popolo, che ha fondato un partito con lo stesso nome e che ha conquistato il potere promettendo di «rovesciare il sistema». Zelensky gira il Paese con le telecamere al seguito, città per città convoca funzionari e burocrati, caccia e licenzia in diretta televisiva dignitari e politici locali: «Via di qui, ladro! Stasera stessa voglio le tue dimissioni!». Il pubblico applaude, per le strade la folla è in delirio. Riuscirà il giovane presidente a cambiare davvero il Paese, riuscirà ad estirpare la mala pianta della corruzione? Nessuno se lo chiede davvero, la gente è semplicemente affascinata dallo spettacolo in sé, dall’esibizione dei muscoli, dall’ adrenalina dei processi di piazza.

Il pazzo è arrivato al potere nelle pieghe più periferiche del pianeta. Prendete El Salvadòr, uno dei paesi più poveri e depressi del Centroamerica, teatro più di trenta anni fa di una sanguinosa guerra civile. Qui, tra campagne abbandonate e periferie dissipate, il nuovo presidente è Nayib Bukele (nella foto), un millennial di origini palestinesi, una sorta di alieno apparso dal nulla della storia. Bukele, imprenditore di successo, sconosciuto in politica fino al suo inaspettato trionfo elettorale, governa a colpi di tweets, e a colpi di tweets – con la parola d’ordine medicina – licenzia o promuove ministri e dignitari. In meno di una settimana, il giovane presidente ha ordinato la cacciata di una trentina di funzionari legati all’ex capo dello Stato. La formula è sempre la stessa: «Si ordina al ministero di rimuovere dal suo incarico e dallo stipendio il signor…». Ed è sempre identica la risposta del funzionario incaricato di tagliare la testa: «Subito, signor presidente…». Ha cambiato qualcosa, in Salvadòr, il nuovo presidente? Il Paese resta povero, insicuro, corrotto, migliaia di giovani si uniscono alle bande di criminali di strada o cercano di emigrare verso il Messico e gli Stati uniti. Nulla è cambiato, nella vita delle persone, ma lo stile di Bukele piace, e piace soprattutto l’odore del sangue.

Il comico, il buffone, il pazzo, il deforme nel corpo e nella mente.  Nella tradizione classica era il personaggio destinato a divertire la corte e il sovrano: un carattere secondario, concepito per strappare risate all’uditorio. «Ahi, povero Yorick. L’ho conosciuto, Orazio: un uomo di un brio inesauribile, d’una fantasia senza pari…dove sono ora i tuoi lazzi, le tue capriole, i tuoi canti, i tuoi lampi di allegria che a tavola alzavano scrosci di risate?». Oggi Yorick non è destinato all’oblio di un cimitero di campagna, anzi. Il matto ha soppiantato re e regine, Yorick infine è il sovrano stesso. E se il buffone ha le sembianze e il potere del sovrano, il mondo, il nostro mondo, come direbbe Amleto, è davvero fuori di sesto.

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