Alberto Fraccacreta
A proposito di "Arruina"

Le streghe del Sud

Mito e realtà tra le rovine, non solo materiali, del Mezzogiorno d'Italia: è il bell'esordio narrativo di Francesco Iannone. Quasi il resoconto di una visione notturna, tra Cormac McCarthy e Seamus Heaney

Esiste una tipologia di letteratura che pare avere qualcosa di arcano nello stile e nella situazione narrativa. Sarà l’eliminazione dei residui oggettuali del moderno, sarà la patina fortemente spiritualizzata del linguaggio: certo è che, nelle maglie diegetiche di questa letteratura, il lettore sembra muoversi entro un tempo già vissuto, al di fuori del tempo stesso. Il time out of mind—molto dylaniano, per la verità—è visibile allorquando la strategia compositiva, orientata a una descrittività pungente, carsica, per nulla inibita, insiste sulla sospensione figurativa degli attori della vicenda: essi si muovono sì in uno spazio e, possibilmente, in un tempo predeterminato, ma la loro consistenza storica è labilissima, anche se perfettamente inquadrata. È l’esempio paradigmatico di alcuni racconti di Kafka e, ancor di più, di un romanzo come Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, situato cronologicamente nel 1850 circa, eppure così sfuggente ed elusivo nelle sue terminazioni contingenti da far apparire i personaggi guidati dal giudice Holden quali fantasmi che ancora oggi aleggiano e si aggirano nella striscia di terra che va da El Paso a Santa Fe ed entra nelle asperità territoriali del Messico alla ricerca degli scalpi. Questa letteratura, fortemente connotata sotto il profilo poetico, agisce per simboli e visioni: quello che accade è funzionale ad altro — un “altro” nascosto e imponderabile —, il punto della vicenda non si arresta lì ma strizza l’occhio in vista di un oltre non meglio definito.

È a questo genere di scrittura che appartiene, con le dovute differenze, il romanzo di esordio di Francesco Iannone, Arruina (il Saggiatore, pp. 155, € 20), ambientato in un Cilento post-apocalittico — evidente il legame con La strada — e abitato da streghe, le Nerissime, che devono sacrificare la Sperduta, una bambina, per perpetuare la loro maligna esistenza. «Io non credevo a nulla di quello che dicevano, ma una belva nitrì e quel suono abbatté le transenne della mia mente: “Nascerà una bambina e sanguinerà molto, e il suo sangue avrà guizzi di lava e calore di fiamma. Ogni cento anni nasce una bambina così. E ogni cento anni la vita delle Nerissime è in pericolo. Per questo tua figlia dovrà morire”». Romanzo meridionale legato al genere favolistico allegorico medievale, fiaba nera dunque come Teste tonde e teste a punta di Brecht ma con fattura più metafisica che politica, Arruina si nutre di un linguaggio voracemente gotico, allignante nelle sue cadenze desolate e desultorie: una prosa lussureggiante e desertica al contempo, dove l’elevazione della lingua si scontra con le profondità antropologiche. Dal mito e dalle sue complicanze sembra sorgere la storia della Sperduta, nascitura che ha in sé il germe del rinnovamento, della salvezza e dell’eschaton. Il ritorno del dio in forma femminile è un topos poetico tra i più importanti e gravidi di senso: il Montale della Primavera hitleriana, l’Heaney virgiliano che canta la nascita della nipotina in Electric Light con Bann Valley Eclogue e Glanmore Eclogue. I toni ecloghistici e pastorali, vicinissimi a quelli del poeta irlandese, presuppongono anche l’ascesa e il ritorno di un novum spirituale: «La mattina è calda e la palpiamo con gli sguardi, ne beviamo il suo giubilo latteo. Sento lo schiocco della tua lingua contro i denti, lo sbadiglio sembra l’urlo gettato su un corteo per ammansirlo. Sei sospesa nel dialetto di una sillaba, “La toia, la mia, la Sperduta”. Ti desti dal sonno affranta come un’orfana per il sonno negato. Sei nel sobbalzo di un altro mondo mentre la Sperduta ci chiama dalla culla, “Didi, deda”».

Arruina è insomma il resoconto di una visione notturna, di una discesa agli inferi, di un incubo forse, filtrato e rimpolpato da zone immaginarie (Acquavena, Terradura, Roccagloriosa) e reali (Sarno) di un universo lovecraftiano in cui Iannone gravita (ma ci potrebbero essere anche influenze da Ligotti), sempre nel segno dell’unità — filosofica, esistenzialistica — tra umano e animalesco, effettivo e intangibile, vero e fantastico, laddove però lo scenario di forte cupezza può improvvisamente mutare.

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