Daniela Matronola
La seconda e ultima parte di un inedito

Amerigo e Gagarin

«Il 12 aprile 1961, tuo centoduesimo giorno sulla Terra, Jurji Gagarin viene lanciato nello spazio a bordo del Vostok 1, la prima navicella di fabbricazione umana, realizzata dagli scienziati russi...»

Riassunto della precedente puntata: una famiglia ramificata guarda lo sbarco sulla Luna: l’Uomo ha conquistato il cosmo, è arrivato a piantare la sua bandierina sul Mare della Tranquillità, ma la Luna resta lontana e misteriosa, come Amerigo, ragazzino isolazionista, spiato avidamente da te che lo racconti.

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Tu, automaticamente, spiavi le chiostre degli altri.

Ricordi che Marco, per dire, aveva bei denti e soprattutto bei capelli, eppoi era un’ala magnifica, e faceva pure mezzofondo nell’anello olimpionico tutt’attorno al campo di calcio giù allo stadio. Suo fratello Andrea aveva denti molto più belli, e molto sani, grandi e squadrati come quelli di suo padre, invece Marco li aveva regolari ma più stretti e serrati, come sua madre. Li avevano forti, tutti e due: la loro madre, Tamara (ambiguo preannuncio delle molte Luane e Sùèllen a venire, e allora omonima di una pantera della cronaca giudiziaria – lei!, che era una proba madre italiana, friulana di Gorizia), aveva questa sana abitudine americana di tirarli su a latte e yogurt. Passi per il latte, ma lo yogurt! Tu e Germi lo trovavate rivoltante: il pomeriggio presto con Marco e Andrea vi scambiavate viveri col cestino lungo i tre piani (tu al terzo, Germi al secondo e i due fratelli al primo), voi due gli passavate pane e ricotta o certi biscotti buonissimi al cioccolato e loro vi ammannivano vasetti di sanissimo yogurt magro, la loro razione per la merenda di cui si vede avevano fretta di disfarsi, perciò voi ci rimettevate sempre

Amerigo, i denti, li aveva, anche lui, bellissimi. Perlomeno così ti pare di ricordare. Se ci ripensi, rivedi un sorriso lieve, illuminato fin nelle pupille, con un’accensione straordinaria, ma contenuto, non una di quelle deformazioni del viso che ti pareva di subire tu che del resto ridevi sempre – che poi che ci avrai avuto da ridere tanto?, eri un assurdo cuor contento. Se ci ripensi ti pare di rivedere una sequenza deliziosa, come fosse un film, in cui Amerigo è inquadrato di profilo, poi ruotando si assesta di tre quarti, e apre questo lieve sorriso, dolce sì ma anche parecchio enigmatico.

Ti pare un sogno. In realtà di Amerigo non ricordi neppure uno straccio di sorriso. Però le labbra erano rosee e carnose come sanno esserlo ancora quelle dei ragazzini che stanno smettendo d’essere bambini e cominciano a scalare la pubertà. E se non è solo frutto della tua immaginazione, ti pare che avesse gengive come margini netti attorno ai denti, mai pastosi come quelli del tuo compagno di classe Paolo, che li esibiva rosa e filanti anche se poi la chiostra gli risaltava nel viso olivastro.

Amerigo te lo ricordi pure scuro. Certo!, lo vedevi sempre nel periodo delle vacanze.

Ti sembra che arrivasse già abbronzato quando con la famiglia passava nel viaggio di andata verso il mare. D’altra parte l’agosto l’aveva magari passato in montagna, o in una colonia o con gli scout, anche se a te riusciva difficile figurartelo in mezzo a frotte d’altri ragazzini, lui che ti pareva si stagliasse solo contro uno sfondo – come il conduttore di una striscia culturale notturna stagliato contro un generico chroma–key in uno studio televisivo anonimo. Sta di fatto che le ultime lo hanno dato nel ’94 nelle forze di pace dell’ONU inviate a Sarajevo a sorvegliare per bene i massacri, e tre anni prima addirittura nel Golfo a spiare i veri esiti dei bombardamenti chirurgici e a scrutare i primi segni, ancora tutti impercettibili eppure già tutti immaginabili, su vecchi donne e bambini, dell’efficacia di quell’inizio di embargo sulle vere vittime, la popolazione civile.

– Non desidero essere amato,

Te lo figuri a ferire senza cautele chi lo ama, magari dalla distanza di sicurezza di due cartelle pulite pulite, una letterina dal fronte senza sbavature redatta senza neppure un errore tecnico, oppure salvata in word in estensione universale mentre i suoi neuroni sono tutti parallelamente impegnati in qualche finta battaglia, anche nobile, che lui è già sul punto di svuotare una volta per tutte di ogni traccia d’anima risolvendola in una simulazione estrema di qualche gioco di ruolo o in qualche asciutto confronto scacchistico, e intanto lui è disposto a pronunciare l’intento a essere amato su questa Terra solo nascondendosi dietro le parole di un poeta proletario americano.

Intuisci che il suo volto di questi anni più recenti, un volto di giovane uomo, possa mostrare i cerchi e le pliche dell’esperienza come nella sezione di un albero. Ti pare che lo sguardo dell’uomo resti inaccessibile dietro le palpebre abbassate nel contesto del viso infantile, la testa un po’ reclinata in un’aria struggente e malandrina. Ti pare che ciò che lo riempie non potrai mai conoscerlo, non potrai mai entrarvi da nessuno dei varchi pur lasciati abilmente socchiusi, come ti capitò di poter spiare una domenica d’ottobre nel Ritratto di Giovane Uomo di Lucien Freud, quadro del 1961, e per non dimenticare mai più la metafora segnaletica che vi avevi trovato ti accaparrasti subito il catalogo della mostra e il solo sapere che esso è stipato in buona compagnia in un certo scaffale festeggiato dagli acari te lo tiene incagliato nell’eterna memoria visiva.

C’era il fratello di Amerigo, Pierluigi detto Pingi, come lui stesso riusciva a chiamarsi da bambino per la stessa difficoltà che impedì all’eroe di Grandi Speranze di pronunciare da piccolo il proprio nome, Philip Pirrip, prontamente contratto in Pip – del resto anche tua madre da bambina, non riuscendo a pronunciare tutti d’un fiato nome e cognome, a chi le chiedeva di dire come si chiamasse, rispondeva tutta sicura: Anna Tìcchettìcche!, non cortissimo ma almeno onomatopeico. Bè, lui, Pierluigi detto Pingi, lui sì che era un uragano e quando ormai da adolescenti non vi vedevate quasi più, ti arrivò la scarna notizia che era diventato un magnifico cestista nella squadra della sua città che militava in B, come fosse per un ragazzino americano l’anticamera dell’NBA.

Ma Amerigo no – Amerigo non pareva un tipo disposto a mescolarsi.

D’estate aveva la pelle nera, d’accordo, perché (presumevi) era andato in piscina col fratellino Pingi e tutti gli altri amichetti della scuola o degli scout, però il nuoto è uno di quegli sport che, come lo sci o il tennis, si scelgono perlopiù per sfidarsi da soli.

Come certi giochi che fanno i piccoli coi soldatini, i ranch di plastica o qualunque altra cosa, quando li senti che si raccontano storie e prendono tutte le parti e fanno tutte le voci. Germi, per dire, giocava con le palline magiche che facevano rimbalzi beffardi e restavano imprendibili, o con le biglie (te le ricordi benissimo, rotolare lungo le piste virtuali disegnate dalla tessitura nel tappeto persiano che copriva il centro della stanza di Germi, in fondo al lungo corridoio a sinistra, tra la stanza dei nonni e il bagno, in certe gare indiavolate che lui inscenava con foga senza ritegno), in vetro, coi ciclisti intrappolati dentro: Felice Gimondi, Vittorio Adorni, Giovanni Battaglin (l’idolo di Germi), o il belga Eddie Mercks – tu te lo ricordi steso avvilito sul letto in una stanza d’albergo, che piange disperato per un’accusa di doping, e ricordi anche che pronunciare il suo cognome a te faceva subito venire in mente la casa farmaceutica (senza la S finale) che imbottigliava uno sciroppo orribile, dolcissimo da rabbrividire, prescritto sempre dal Dottor Germano che con suo fratello Fernando e tuo padre era tornato nella tua città tra i primi dopo la distruzione per i bombardamenti alleati a distribuire il chinino contro la malaria visto che la guerra innescata dal Grande Bonificatore delle paludi pontine, oltre a cancellare la tua città dalle carte di Campania Felix in cui era stata indicata in evo moderno, ben dopo il 300 a.C., anno di fondazione romana, l’aveva anche resa un’immensa area palustre.

Amerigo veniva a casa, giù da tua nonna, dove facevate capo tutti, e tu te lo ricordi benissimo, coi suoi capelli scuri, un caschetto corto con due deliziose virgole davanti alle orecchie regolari, coi lobi sottili, quasi inesistenti, ti sembra ora, e gli occhi scuri, quasi sempre bassi sui giornalini, o sulle raccolte di romanzi condensati di Selezione, come chiusi in un sonno angelico.

La casa era piena di voci, di strilletti di bambini che giocavano, di ginocchia che sdrucciolavano sul marmo del corridoio, di simulazioni di grida indiane e spari nella roccia col sibilo, che era anche un modo per definire certi fischi di tossette tisiche tra voi ragazzini.

I grandi stavano nel salone dove le luci erano tutte accese e oltre i vetri lavorati delle porte a tutta parete, tenute appannate (una parola del vostro lessico famigliare per dire socchiuse) per riservare lo spazio degli adulti dai giochi dei bambini, ogni tanto tu, scrutando dalla porta del corridoio di fronte (quello che avviava la fuga verso le stanze per la notte, a sinistra della porta d’ingresso) ti mettevi a indovinare le figure sedute e in piedi degli zii che chiacchieravano coi tuoi e con i nonni, e ti parevano già tutti magnificamente in salvo – dall’obbligo di dover dimostrare di continuo chi fossero, e in cosa valessero. Ti pareva che fossero già oltre la pena di doversi fare un qualunque straccio di credibilità come persone, e (questa per te era la stranezza più grande) i loro nomi ti pareva fossero esattamente le loro identità mentre la tua ti pareva inagguantabile, non esattamente appuntabile al nome. E questa impossibilità di offrire contorni netti di te ti pare di capire che finora si è solo attenuata.

Tutti voi ragazzini legavate subito e vi distendevate lungo l’intera area, sterminata, dell’appartamento, un intero piano, non facendo che correre, nascondervi, inventarvi conte, e infliggervi pegni da pagare. Subito infestavate l’intero regno come coloni che piantino la loro bandierina e proclamino di continuo l’acquisizione del territorio magnificamente zeppo di trappole. Come una certa intercapedine tra la camera degli zii e il corridoio, il vestibolo o guardaroba, dove tuo zio andava a sporcarsi le spalle di polvere, quando voi cuginetti giocavate a nascondino e ve ne restavate stipati, tremanti, per intere mezz’ore, in un armadio scricchiolante nella camera per gli ospiti (nel vostro lessico chiamata familiarmente camera a due letti) altre volte adibita a carrozza, col cuore in gola per l’ansia d’essere scovati per primi e di non riuscire ad essere più lesti per andare a toccare tana, che in genere stava in camera di Germi – e tuo zio riusciva a farvi credere d’essere passato nel muro.

Diceva proprio così, lui in persona a voi che lo guardavate con grandi O disegnate in viso dalle bocche rosee:

– Sono passato dal muro!

E anche voi tra di voi, rifattivi dallo stupore, prendevate a commentare il fatto:

– Per questo non si trovava, perché è passato nel muro!

Una conclusione ovviamente falsa ma corroborata dalla sospensione della vostra lasca incredulità e percepita subito da te anche con un senso di ingiustizia perché ti pareva che gli adulti rispetto a voi ragazzini godessero di molti più diritti, e tra questi c’era anche la possibilità di barare, o di percorrere scorciatoie che a voi erano negate.

A quella amabile fandonia tu, come tutti, avevi sempre creduto ciecamente, ma dal famoso giorno della famosa disputa sulla Ford cominciasti a sospettare che in fondo bastava strusciarsi un po’ contro una parete per raccontare a quattro ragazzini ingenui le balle che volevano sentirsi dire.

Amerigo, acquartierato con pacchi di giornaletti nella camera a due letti o per gli ospiti (con armadio/nascondiglio/carrozza), si lasciava sfrecciare intorno questo traffico metropolitano, a meno che non si verificasse un trasferimento, immediato e in blocco, in giardino, dove parecchi altri brividi si aggiungevano a quelli che condivano in genere queste vostre furibonde giocate: per miracolo il logorio della vita comune non lo contaminava, non lo sfiorava neppure.

Scendevano anche Marco e Andrea mentre Cecilia, la loro sorellina più piccola e parecchio lagnosa, restava prudentemente riparata dietro la ringhiera del balconcino, e lo stesso facevano due bambine biondissime, quasi albine, che se ne stavano nella terrazza grande dall’altro lato del primo piano, sopra i garages da cui dei ladri agili avrebbero potuto (come poi accadde) intraprendere la facile scalata al vostro palazzo.

Laggiù, in giardino, il regno si faceva davvero sconfinato – in senso stretto.

Non c’erano margini veri e propri, a parte un fosso che separava il parco curato dalla landa incolta, larga e lunghissima, tutta stesa davanti, e giù in fondo era zeppo di roulottes e mercedes degli zingari coi cavalli sbrigliati liberi al pascolo.

I confini morali, da quel lato, erano una palma enorme e una magnolia altissima e articolata che per giocare a nascondersi andava benissimo – e onestamente nessuno si era permesso, quei confini, di varcarli mai, nell’una direzione come nell’altra, a uscire come a entrare. Quello era il SUD.

A OVEST il margine era costituito da una mimosa: lì, alla catena, stava Lilla, una spinoncina italiana col pelo spettinato bianco e miele, che (caso unico e irripetuto)  ti atterriva, perennemente scossa com’era da fremiti di eccitazione che tu non riuscivi a scambiare per affetto. Lilla aveva sempre il collo strozzato: si stendeva fino a soffocare pur di arrivare a leccarti la mano, e tu, bastardamente, gliela stendevi al limite pronta a ritirarla appena lei, nello sforzo di raggiungerti, tirava indietro le labbra e scopriva paurosamente i denti in un ghigno francamente ridicolo, finendo per giunta a sbavare copiosamente. Un equivoco pauroso. Lilla diventava il ritratto della ferocia pur di beccarsi da te uno straccio di carezza e farti due feste sacrificatissime.

A NORD c’era il blocco del palazzo ma a EST c’era la scuola elementare e tra i due edifici si apriva la strada, il varco storto dal giardino verso il mondo, purché accessibile senza intoppi – un’insperata via di fuga verso l’ignoto, verso la vita larga, verso la storia.

C’era un gusto pieno di brividi a nascondersi, anzi a farsi trovare.

I più onesti si distribuivano su tra le piante ma i bari se ne uscivano e andavano negli androni dei palazzi sulla strada di fronte o se ne stavano a spiare da dietro gli angoli quelli che, nel lessico famigliare di voi ragazzini, stavano sotto e fingevano di contare a occhi chiusi, e se c’era da contare fino a cento arrivavano sì e no a cinquanta e poi si mettevano subito a cercarvi. Però così non valeva! (sempre gergo vostro) – chi stava sotto (gergo, di nuovo) brancolava come un cretino e intanto quegli altri si gustavano la scena non visti: potevano essere ovunque.

Appunto chi stava sotto (!), avvilito dalla fatica immane di andarseli a riacchiappare neppure sapeva dove, uno per uno, e dal senso del ridicolo di sapersi guardato, dopo nemmeno un paio di tentativi, a stento abbozzati, di ricerca, cominciava a pensare di lavorarseli sull’onda lunga della stanchezza. Smetteva semplicemente di cercare, e a quel punto si appostava da un portoncino nascosto, quello da cui sciamavate in giardino tutti passando dal pauroso sottoscala con le cataste di legna grossa miste a miriadi di rametti (come pescecani coi loro pesciolini pilota) di quelli usati per condurre la fiamma prima che i ciocchi comincino a ardere, perché c’era sempre la faccenda della tana e dell’ultimo che poteva sempre fregarlo con una beffarda tana–libera–tutti in extremis: si metteva a aspettare. Quelli nascosti non l’avrebbero più potuto spiare e dopo un po’, delusi di non essere più cercati, avrebbero finito per offrirglisi loro stessi.

Un bel sistema, estenuante ma alla fine di tutta soddisfazione.

Su tutto questo a un certo punto calava l’oscurità, tutto si confondeva e tutti cominciavano a soffrire di allucinazioni aggravate dal clima di sospetto e di attesa. E anche i denti di Lilla sembravano scintillare di più, sarebbero sembrati più appuntiti e più lunghi.

Inflessibile, Amerigo restava su in casa ogni volta che tutti voi altri scendevate giù, circostanza non frequentissima visto che, preoccupati da tutti questi sforamenti dal territorio, i grandi non volevano che scendeste e spesso proprio non vi mandavano – ricordi che soprattutto tua madre si opponeva nervosamente, in allarme più che per Titti, piccola ma avveduta, per te che regolarmente tornavi sanguinante, anche se per tua madre era essenziale che in ogni caso schiodaste tutti da casa vostra, al terzo piano, e vi riversaste a casa dei nonni, così eravate al sicuro ma fuori dai piedi.

Amerigo te lo ricordi nel suo esilio volontario perciò ancor più dorato, confinato per sua stessa scelta nella camera a due letti o degli ospiti (con armadio/nascondiglio/ carrozza), seduto in punta al letto più esterno, con gli occhi incollati ai giornaletti. Se li portava da casa, casomai corresse il rischio di dover rivolgere la parola a qualcuno, ma anche col rischio di dare fondo a tutte le adorate letture predisposte per un intero mese di vacanza.

Non riesci a ricordare saluti particolari con lui, e non ricordi la sua voce – che sarà stata una voce da bambino, almeno credi. Magari la stava giusto cambiando, e allora gli sarà rincresciuto parlare. Eppure la famigliola, le due uniche volte l’anno che si faceva viva, veniva proprio per salutarvi.

Amerigo aveva un’altra postazione fissa, in alternativa. E sotto sotto era quella che gli faceva più gola. Certe volte si raggomitolava nella poltrona della camera in fondo a tutte, la più lontana, una di quelle camere che di notte ti tagliava fuori da ogni disturbo ma anche da qualunque e comunque invocata possibilità di salvezza. Una di quelle stanze sinistre che la notte restavano tipicamente piombate nel buio con spalancato davanti un budello nero dal magnifico pavimento in marmo, lucidissimo, su cui sciabolavano i riflessi più capricciosi, e tu ti agghiacciavi a fiutare presenze, e naturalmente ti ritrovavi a farti il rosario di tutti gli squali e i demoni e le clare calamai e le bettedavis/carlotte e i canineripelosi che infestavano tutte le tue notti regolarmente sempre prima di dormire.

Amerigo, è vero, finiva a stiparsi in una cuna, il buco più allo sprofondo nella casa.

Però aveva una sua postura, elegante e distaccata, sempre la stessa.

Poggiarsi è la parola: lui stava poggiato.

Accomodava le terga lievemente – sempre sul punto, non c’era dubbio, di scattare in piedi per andarsene, sempre sul punto di ripartire. Non vedeva l’ora, si vede.

Era, beninteso, chiuso e irraggiungibile, ma era anche vigile, teso a cogliere il più ultrasonico segnale che la visita dovuta era finita e lui poteva andarsene via libero, verso un mese di mare, o verso un anno di casa e scuola (e chissà se, in entrambi i casi, amici) – e per quella volta la faccenda sarebbe stata dietro le sue spalle. Salvo riproporsi, dopo qualche mese. Ma poco importava, quella intanto era superata.

Le volte in cui poi andavate voi, le due vostre incursioni a luglio: andata e ritorno (anche se voi non eravate ossessivamente regolari come loro) non contavano, perché lì lui, Amerigo, non si faceva trovare. Direttamente. E neppure suo fratello Pierluigi detto Pingi.

Il 12 aprile 1961, tuo centoduesimo giorno sulla Terra, Jurji Gagarin viene lanciato nello spazio a bordo del Vostok 1, la prima navicella di fabbricazione umana, realizzata dagli scienziati russi. Gagarin è il primo cosmonauta della Storia. Resta in orbita per 89 minuti, a 320 chilometri di quota, viaggiando a una velocità di 27mila chilometri orari.

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2. Fine. Clicca qui per leggere la prima parte del racconto.

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