Lina Senserini
Mafiosità e neomelodici

Ricordare Rita Atria

Che ne è dell'Italia di Rita Atria? Quel paese con una forte cultura civile che riesce a ribellarsi alla dittatura della criminalità? Forse, la degradazione di oggi era già scritta nel drammatico suicidio della giovane testimone di giustizia

Il 23 maggio, nell’anniversario della strage di Capaci, è uscito nelle sale italiane il potente film di Marco Bellocchio Il Traditore, sul primo grande pentito di Mafia, Tommaso Buscetta. Pochi giorni dopo, il 5 giugno, in uno dei tanti format televisivi prodotti dalla Rai, Realiti, il cantante neomelodico catanese Leonardo Zappalà, in arte Scarface, 19 anni, ha affermato che Falcone e Borsellino se la sono cercata. «Queste persone che hanno fatto queste scelte di vita le sanno le conseguenze», ha detto stravaccato sul divano, in un italiano approssimativo, come approssimativa deve essere la sua conoscenza della storia recente e nullo il suo senso civico.

Bufere, denunce, scuse, rimozione del video dal sito “Raiplay”, un’unica riflessione: come è possibile ridurre Capaci e via D’Amelio ad argomento di un “salotto” tv trash, dove un bulletto ignorante si prende la libertà di offendere chi ha pagato con la vita per non essersi arreso a Cosa Nostra? Manca poco anche all’anniversario della morte di Paolo Borsellino, saltato in aria con la scorta il 19 luglio di quell’annus horribilis che è stato il ’92, quando Zappalà non era nemmeno “in mente dei”. Quattro giorni dopo, una ragazza siciliana, Rita Atria, più o meno dell’età del “cantante”, decideva di farla finita buttandosi dal balcone della sua casa in via Amelia, a Roma, dove viveva sotto protezione. «Quelle bombe in un secondo spazzarono via il mio sogno, perché uccisero coloro che, col loro esempio di coraggio, rappresentavano la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto. Ora tutto è finito», scrisse della strage di via D’Amelio, poco prima di lanciarsi nel vuoto.

Rita era una testimone di giustizia che, pur giovanissima, aveva avuto il coraggio di ribellarsi al sistema mafioso in cui era nata e cresciuta e aveva trovato in Paolo Borsellino un punto di riferimento, il padre che in fondo non aveva avuto. Perdere lui significò perdere ogni speranza.

Era nata a Partanna, nel trapanese, il 4 settembre del 1974, figlia di un mafioso, Vito Atria, ucciso in un agguato quando Rita aveva 11 anni. Il fratello Nicola, che fino a quel momento era rimasto estraneo alle dinamiche mafiose, decise di vendicare la morte del padre ed entrò a far parte di Cosa Nostra. Rita era la sua confidente, il fratello le rivelò tutto quello che era venuto a sapere sulle attività della mafia a Partanna e non solo. Nel 1991, anche Nicola cadde sotto il piombo mafioso, trucidato davanti alla moglie, Piera Aiello, mentre stava lavorando nella pizzeria di un amico.

Fu il punto di non ritorno, per le due donne. Piera denunciò gli assassini del marito alla Procura di Marsala, in quel momento guidata da Paolo Borsellino. Poi, anche Rita, sorda agli avvertimenti della madre che le diceva di non immischiarsi, decise di seguire l’esempio della cognata. E una mattina, invece di andare a scuola, si presentò alla Procura, dove cominciò a raccontare tutto quello che aveva saputo dal fratello e tutto quello che aveva visto di mafia. Sapeva molto più della cognata, la «femmina lingua longa e amica degli sbirri» come qualcuno l’aveva definita. Le sue rivelazioni furono determinanti per ricostruire i legami di mafia nel trapanese e portare ad alcuni arresti eccellenti.

Rinnegata dalla madre, strappata dai propri affetti, Rita trovò nel giudice Borsellino, che l’aveva presa sotto la propria protezione, e in sua madre Agnese, una famiglia e quanto aveva perduto dalla morte del padre e del fratello, fino al giorno in cui aveva deciso di raccontare quello che sapeva. Poi, dalla Sicilia, venne trasferita in un posto segreto a Roma, dove il 19 luglio la raggiunse la terribile notizia della strage di via D’Amelio. E fu la fine. La coraggiosa Rita, cadde in uno strato di prostrazione cui mise fine togliendosi la vita.

La notizia del suicidio della ragazza venne accolta da un lungo applauso nel carcere di Trapani, come, più tardi, raccontò un pentito. Nessuno del paese di Partanna, nemmeno la madre, Giovanna Cannova, andò al funerale della «picciridda infame», che aveva disonorato la famiglia Atria, osando sfidare Cosa Nostra. Mesi dopo la sepoltura di Rita, la madre prese un martello e ne cancellò il nome dalla tomba, facendo a pezzi il marmo su cui campeggiava la scritta “La verità vive”, estremo oltraggio alla giovane vita spezzata dalla solitudine, dal dolore e dall’impotenza.

Ma «se la memoria ha un futuro», scriveva Leonardo Sciascia, come la verità, anche la storia di Rita vive: nell’associazione che porta il suo nome, nel libro Maledetta Mafia, in cui la cognata Piera ne racconta la storia. E poi nelle tante iniziative a lei dedicate – ultima, il capannone di Calendasco (PC) confiscato alla mafia, inaugurato il 12 maggio 2018 da don Luigi Ciotti e intitolato a Rita – nei gesti quotidiani di tutti i siciliani onesti che credono che un mondo diverso sia possibile.«Forse un mondo onesto non esisterà mai – aveva scritto sul suo diario – ma chi ci impedisce di sognare? Forse… se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo».

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