Mario Di Calo
Visto al Teatro Sannazzaro di Napoli

I morti di Lenton

Torna a Napoli il celebre regista inglese Mattew Lenton: stavolta usa un collettivo di attori italiani per dar vita a una favola nera ispirata a un poemetto di Maurice Maeterlinck del 1895

A distanza di dieci anni, nella stessa cornice del Teatro Sannazzaro di Napoli dove per la prima volta il pubblico italiano poté conoscerne e ammirarne la poetica, torna il regista britannico Mattew Lenton, direttore artistico della compagnia Vanishing Point di Glasgow, con lo spettacolo Interiors. Stavolta però con interpreti tutti italiani ed eccezionalmente napoletani, particolare non trascurabile questo, essendo lo spettacolo completamente senza parole se si esclude una voce fuori campo che descrive, spesso anticipandone, intenzioni, dialoghi e movimenti di quello che accade in scena. Interiors prende spunto da un poemetto di Maurice Maeterlinck del 1895, destinato ad un teatro di marionette, in cui due personaggi osservano all’esterno di una casa un piccolo nucleo familiare in un occasione tragica: il decesso di uno dei membri di quella stessa famiglia. Ed è proprio la morte, a diventare la protagonista, una raffinata Morte in redingote e baschetto candidi, nella pièce di Mattew Lenton che pian pianino si palesa al pubblico con garbo e letizia (una Clara Bocchino forse troppa acerba per un ruolo così determinante) mentre osserva, descrive, commenta dall’esterno quel gruppo di scozzesi, un drappello di amici, un interno familiare, radunati per festeggiare in compagnia la giornata più lunga dell’anno, siamo in un Nord popolato di orsi polari molto pericolosi e affamati. Un’umanità variegata che si aggrega fiduciosamente per non ritrovarsi sola, e forse quella sedia vuota rammenta proprio quello spettro tormentato che si aggira senza trovar pace, creando un forte legame fra chi assiste e chi rappresenta.

I personaggi compaiono in scena imbacuccati: li intravediamo solo attraverso una vetrata/oblò che tutto sospende e tutto attutisce; sono armati di fucile o pistole, per proteggersi, appunto, dalla ferocia di quegli animali in libertà. In termini analitici l’arma da fuoco sta a significare una forte necessità di raccontare, di comunicare, di imporre se stessi. Sergio, Lucienne, Ingrid, Giorgio, Rebecca, Giuseppe, Ivan (qui i nomi dei personaggi coincidono con quelli degli interpreti, come a garantire un’autenticità della loro sussistenza e attendibilità) scoppiano di vita, non riescono a trattenere sia pure un desiderio di scontro, ma si sa, è nello scontro, nel confronto che si consolida una comunità, e l’arma rappresenta appunto quell’affermazione di presenza.

Si accentua così la sospensione in cui i personaggi si muovono, aleggiano, attraverso un grande Big Brother tragicamente esilarante, in cui il pubblico sbricia imprudentemente, senza pudore, senza riserbo, senza riguardo: la famosa quarta parete si posiziona fra l’esistenza di questi personaggi e un sibilo di vento polare, unico sound a far compagnia agli spettatori che viene interrotto per poi riprendere dopo un spassosa compilation-party in cui i convitati si scatenano in danze sfrenate, e che da vita ad uno scardinamento di proporzioni già alquanto precarie. Da lì in poi, i personaggi via via riprenderanno possesso delle loro armi, della loro identità, della loro maschera e fuoriusciranno da quella bolla di apparente felicità, non prima che quella voce fonda non abbia predetto loro il destino inevitabile, la morte aleggia su di loro, e su di noi, con soave indifferenza adopera ciò che la vita generosamente ha destinato a ognuno di quei fragili individui. Ed è allora che quel diaframma simbolicamente collocato a fare da barriera fra spettatore e interpreti viene a cadere: tutti siamo immersi in quella apprensione esistenziale che non lascia scampo a nulla e a nessuno. Gli interpreti Sergio Di Paola, Lucienne Perreca, Ingrid Sansone, Giorgio Pinto, Rebecca Furfaro, Giuseppe Brunetti e Ivan Castiglione generosamente direi riescono a dosare la loro naturale fisiognomica, in quanto interpreti partenopei portati naturalmente a una comunicazione immediata, in quella apparente semplicità di mimare, di non far uso della voce, e quindi ancor più impegnativo riuscire a esprimere un mondo composto unicamente in quanto acquario esistenziale. Lo spettacolo è stato in scena nel teatro di Via Chiaia dal 3 al 12 maggio.

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La foto è di Piero Quaranta

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