Francesco Improta
A proposito de "I senza cuore"

Ulisse detective

Giuseppe Conte ambienta il suo nuovo romanzo in un Medioevo popolato di paure e serial killer. Ne è nato quasi un giallo in cui l'investigatore è un marinaio a metà strada tra Ulisse e Guglielmo di Baskerville

Dopo essersi misurato con l’attualità più scottante e drammatica in Sesso e Apocalisse a Istanbul, Giuseppe Conte con il romanzo corale I senza cuore (Giunti, pagg. 420, 19 Euro), a metà strada tra l’affresco storico e l’epopea leggendaria, torna alle sue tematiche predilette: il mare, la bellezza, l’avventura, il destino e il mito.

     Dopo un prologo in Terrasanta, all’indomani della conquista di Gerusa­lemme e del massacro dei musulmani nella moschea di Cesarea (1101) la vicenda si sposta a Genova nel 1116, dove viene introdotta una giovane donna, Giannetta Centurione, irrequieta e ribelle, simbolo di prematura ma prepotente emancipazione femminile, e dal cui porto sta per pren­dere il largo una splendida galea agli ordini di Guglielmo il Malo della ricca e potente famiglia degli Embriaci, che già si era distinto in Terrasanta e che è diretto in Cornovaglia in cerca di conferme sull’autenticità o meno di un vaso di smeraldo che sarebbe stato donato dalla Regina di Saba a Salomone. Durante la navigazione, nelle notti di novilunio, con la complicità delle tenebre, vengono uccisi in maniera efferata tre ufficiali, per cui il comandante deve trasformarsi, controvoglia e con scarsi risultati, nonostante l’aiuto di un giovane scrivano, in un detective per scoprire questo feroce serial killer che non si limita ad uccidere ma infierisce sulle vittime strappando loro il cuore.

Doveroso a questo punto interrompere il racconto per non privare il lettore del piacere della scoperta e per le difficoltà oggettive cui si va incontro nel riassumere una storia così complessa ed intricata, in cui si muovono personaggi storici e personaggi partoriti dalla fantasia dell’autore. Al centro della vicenda, vero protagonista del romanzo come in quasi tutta la narrativa di Conte, c’è il mare che esercita un fascino indiscutibile, in quanto simbolo di avventura, libertà ed evasione, ma anche paura e sgomento, trattandosi dell’oceano che le navi genovesi non hanno ancora solcato, e che nell’immaginario popolare è affollato di mostri marini misteriosi o di presenze demoniache, vere incarnazioni del male, come sostiene il cappellano Don Rubaldo Pella, sempre pronto a biascicare preghiere ma fin troppo incline ai piaceri della carne. E una tempesta di enormi proporzioni, scoppiata all’improvviso, sembra dar corpo a queste superstizioni, laiche o religiose che siano, accentuando l’inquietudine e il terrore nei marinai, decimati dalla violenza delle onde che spazzano il ponte, per cui i superstiti sono costretti a legarsi agli alberi della nave per non finire in mare. La descrizione, bellissima, curata in tutti i particolari, occupa diverse pagine e rappresenta il momento di massima spannung narrativa.

L’avventura del protagonista nelle vesti di detective ci ricorda, per il nome e per la presenza al suo fianco di un giovane scrivano, quella di Guglielmo di Baskerville in Il nome della rosa, mentre in qualità di comandante della nave ci riporta alla mente quella dell’Ulisse dantesco: entrambi superano le Colonne di Ercole, poco importa che ormai abbiano cambiato nome, ed entrambi prima di avven­turarsi nell’ignoto tengono alla ciurma una “orazion picciola”. Guglielmo di Malo incarna pure nella sua incessante quête lo spirito dei cavalieri medievali che andavano alla ricerca di una donna, un cavallo o un oggetto (in questo caso il vaso di smeraldo) più che altro un pretesto, per mettere alla prova le proprie capacità, per misurare limiti e pregi e per giungere, quindi, alla scoperta e alla comprensione di se stessi.

Tra i modelli letterari di Conte si possono rintracciare anche Melville e Conrad, ma, come ho avuto già occasione di dire in altra sede, questa ricognizione per risalire alle fonti o ai modelli letterari ha un valore relativo in quanto sono tutti assimilati e rielaborati nella visione mitopoietica dell’autore. Mi sembra, invece, interessante ribadire l’amore di Conte per la classicità, nel caso specifico Virgilio e Seneca, “compagni di viaggio” del giovane scrivano; il filosofo di Cordova lo abbiamo già incontrato come personaggio ne L’adultera dove compare alla fine del romanzo sulla spiaggia di Ostia, mentre nel Male veniva dal mare, Marlon, il clochard, nello zaino insieme a Foglie d’erba di W. Whitman si porta dietro le Metamorfosi di Ovidio, straordinaria raccolta di miti antichi e imperituri. In questo romanzo ai miti classici si aggiunge quello celtico, che affonda le sue radici nel folklore bretone, di Malgven e Gradlon, cui è associata la leg­genda della città di Ys inghiottita dall’oceano, senza, però, che venga mai smarrito il contatto con la Storia; sullo sfondo, infatti, c’è sempre Genova, la Superba, con la febbrile attività dei suoi fondaci e dei suoi commerci, con le potenti flotte mercantili, con le sue torri svettanti, simbolo di floridezza economica. Famiglie potenti si contendono il predominio in città: i Fieschi; i Della Volta; gli Spinola e gli Embriaci, cui appartiene Guglielmo il Malo, il protagonista del romanzo, che sembra fare onore al nome della sua casata quando cerca di affogare la propria impotenza nel vino.

Anche ne I senza cuore affiorano le due anime di Conte, quella avventurosa, eroica, romantica che lo aveva spinto con un manipolo di poeti altrettanto animosi e volitivi ad occupare la basilica di Santa Croce (1994) e a leggere dinanzi alla tomba del Foscolo I Sepolcri e quella didimea che nasce dal disincanto della ragione – che non vuole dire, si badi bene, disimpegno – in seguito alle cocenti delusioni, alla corruzione e la malvagità che dominano nel mondo. La prima è incarnata da Guglielmo che, a dispetto della avversità che hanno costellato il suo viaggio, non rinuncia alla sua ricerca e intraprende alla fine da solo, o quasi, una nuova avventura, avvolto nel suo alone malinconico e romantico, non diversamente da Shane ne Il cavaliere della valle solitaria di G. Stevens o Ethan in Sentieri selvaggi di J. Ford, figure altrettanto epiche. La seconda anima, quella didimea, è incarnata in parte dallo scrivano ma soprattutto da Yusuph Abdel Rahim, che condivide con l’autore il nome e una sincera ammirazione per l’armonia insita nella realtà religiosa, morale e culturale dell’Islam. Yusuph è il primo ad arretrare dinanzi alle violenze perpetrate in Terrasanta e certo non per liberare il Santo Sepolcro, ma per motivi economici, per accaparrarsi, oltre a un ricco bottino, nuovi sbocchi commerciali. Di fronte alla cupidigia della nuova classe mercantile, che non disdegna certo la violenza pur di raggiungere i propri obiettivi e che sulla galea è rappresentata da Bernardo Malocello, Yusuph abbandona la nave e si rifugia nella pace della Moschea a pregare e a meditare.

La scrittura di Conte, che si avvale di un linguaggio ricercato e raffinato, ma sempre efficace e aderente alla realtà, non rifugge dall’utilizzo di idiotismi o di termini del linguaggio settoriale, perlopiù marinaresco, frutto di una lunga e puntuale ricerca, di cui l’autore riporta in calce un utilissimo glossario. Una scrittura che spesso si accende per fiammate liriche improvvise e che viene rischiarata da frequenti raffiche di luce, che confermano ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, la natura prevalentemente poetica dell’autore.

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