Lidia Lombardi
Visto al al cinema il remake live action

La morale di Dumbo

Malgrado la freddezza della critica, la nuova edizione del classico Disney proposta da Tim Burton è più che convincente. Disseminata di riferimenti al presente, con gli effetti strabilianti della tecnologia digitale, senza rinunciare a “qualche graffio da fuoco amico”

Ha diviso la critica il Dumbo di Tim Burton, remake live action del cartone Disney del 1941, nelle sale in 700 copie. È la solita storia del confronto con i classici di “zio Walt” che occupano un posto privilegiato nell’immaginario collettivo e nella storia del cinema. A rendere più difficile il confronto è stata poi la fama di Burton, regista visionario, anticonvenzionale, freak per dirla in una parola. Ci si aspettava dunque chissà quale invenzione, quale clima dark, quale dissacrazione. Che per molti è venuta meno. Sicché questa uscita italiana del kolossal – il classico film di Pasqua, però anticipato alla fine di marzo perché Burton in contemporanea è venuto a Roma per ritirare il David di Donatello alla carriera – non ha fatto il botto sui giornali, mentre al botteghino promette sfracelli. Invece, solo a uscire dalla ragnatela delle attese di chissà quali prodigi, il Dumbo 2019 ha molte frecce al suo arco. Burton fa sua la storia dell’elefantino dalle orecchie troppo grandi, un “diverso” destinato a essere preso in giro dal pubblico del circo, un pubblico feroce perché aspetta di ridere alla vista dell’eccezionale, del fenomeno, del deforme, dai nani alle donne cannone. Ma al protagonista ricreato con effetti strabilianti grazie alla tecnologia digitale (Dumbo soffre e sorride senza affettazione, come gli umani che gli sono attorno, e dall’attonito e sempliciotto avo degli anni Quaranta mutua in sostanza solo gli occhi azzurri) il regista di Batman affianca personaggi altrettanto déraciné.

Ed è fonte di precarietà anche l’epoca nella quale il movie è ambientato, non nel fiducioso 1941 stelle e strisce che mai immaginava di concludersi con l’attacco di Pearl Harbor, ma nel 1919, con l’eco della Grande Guerra nelle orecchie. E infatti il protagonista maschile, Holt (un malinconico Colin Farrell), torna dal fronte a casa, il circo dove è cavallerizzo abile nel lazo, senza un braccio. Sono sradicati anche i suoi due bambini, perché è venuta loro a mancare la mamma, morta per malattia mentre Holt combatteva. Spoglia la tenda nella quale vivono, nel circo dei Fratelli Medici (in realtà l’impresario è uno solo, un tronfio e però umanissimo Danny DeVito), umiliante il ruolo al quale Holt viene destinato, guardiano di elefanti, oltretutto dovendo indossare un improbabile braccio finto, per non turbare la sensibilità del pubblico. Sennonché si trova a educare, insieme con quei suoi due ragazzi che soffrono dell’assenza materna, un neonato prodigio, l’elefantino dalle orecchie così grandi che non riesce a camminare. Ma che, testimoniano un giorno Milly e Joe, riesce a volare, solo se gli si agita davanti una piuma, in simbolico ossimoro leggerezza/pesantezza.

È la svolta per lo scalcinato circo Medici: il pubblico accorre per vedere il mostriciattolo, i perbenisti sghignazzano, il botteghino si gonfia di biglietti. Fiuta l’affare lo spregiudicato Vandevere, patron di Dreamland, il parco dei divertimenti che ha invaso Coney Island, sullo sfondo di una New York che fa scintille consumistiche e si riempie di grattacieli, nella gara a quale è più alto. Il biondo e sfrontato imprenditore del divertificio (un gelido Michael Keaton) fa finta di associarsi a mister Medici, in realtà si compra il piccolo circo, salvo poi separare il cucciolo pachiderma dalla madre, relegata, in catene, nell’Isola degli Orrori (uno spunto che permette a Burton una virata dark). E salvo liquidare tutti gli artisti, dal prestigiatore alla donna sirena Miss Atlantis, dai pagliacci al fachiro che usa il suo serpente per abbracciare gli amici più cari. Insomma, una ristrutturazione aziendale come tante se ne vedono oggi, quando un’impresa ne fagocita un’altra.

Burton dunque dissemina nella pellicola prodiga di masse e di strabilianti scenografie i suoi riferimenti al presente. E sparge uno sguardo ironico su certi personaggi, che non hanno uno sviluppo psicologico proprio perché ingabbiati nella superficialità egoista del potere e dei soldi: il campione è certamente Vandevere, affiancato dal ceffo del suo tuttofare. Dall’altra parte i buoni, Holt e l’intera compagnia del Medici, consci di una mission: liberare Dumbo dalla schiavitù del circo, farlo ricongiungere alla madre, abolire le catene, vedere i due elefanti andarsene, fino a raggiungere la savana, la libertà, la Natura. Finale idealistico, come è scontata la liaison che pian piano cresce tra la donna di Vanderere, una bella trapezista francese col volto orgoglioso di Eva Green, e Holt. I due ragazzini troveranno in lei la figura materna, come Dumbo, che intreccia con mamma elefante la proboscide, citazione del prototipo Disney del ’41.

Ma a Burton interessa salvare l’ironia, qualche graffio da fuoco amico (il kitsch di Dreamland non è forse una frecciata a Disneyland?) e rimandi intelligenti: ecco le enormi bolle di sapone rosa che le ballerine plasmano prima dell’ingresso in scena di Dumbo, come nel cartone animato; ecco il milieu di saltimbanchi alla Fellini; ecco la panoramica colorata sul lunapark che evoca il recente, amaro La ruota delle meraviglie di Woody Allen; ecco perfino l’effetto retrò, da cinema prima del cinema, quando il volo di Dumbo è visto dall’esterno del tendone, attraverso l’ombra da lanterna magica che le luci della pista proiettano nell’oscurità della sera. La ninnananna dei titoli di coda, Bimbo mio, è doppiata da Elisa. Dopo che, nel mondo ricomposto del Circo dei Fratelli Medici, Holt ha ripreso speranza insieme al ruolo. E sfida i benpensanti ipocriti salutandoli in sella al suo cavallo con la mano finta.

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