Francesco Improta
A proposito di "Donne in apnea"

Vite da donne

Con i suoi nuovi racconti Maria Pia Romano mette in fila un catalogo di figure femminili incerte e dolenti, deluse ma sempre pronte a rinascere

Maria Pia Romano, dopo aver indicato con afflato lirico, in Geografie minime, le tappe più importanti del suo percorso umano ed artistico, sceglie la misura del racconto per continuare questo lento cabotaggio lungo i lidi rupestri della memoria e dell’in­con­scio, nel tentativo di definire la propria complessa e tormentata identità o quanto meno di mettere ordine nella propria sintassi esistenziale. Donne in apnea (Il grillo editore, pagg 104, 14 euro) è il titolo, fin troppo eloquente, di questa raccolta e sottolinea la condizione in cui si muovono tutti o quasi i personaggi di questi racconti in perenne debito di ossigeno, incapaci di respirare liberamente, a pieni polmoni: «Siamo tutte così diverse, eppure tutte così uguali nel nostro unico, vero inconfessato bisogno: essere accolte. Speriamo che gli altri capiscano, senza che ci sia bisogno di parlare, invece il più delle volte questo non accade e restiamo mute, con il nostro groviglio di dissapori nella pancia, che ci fa male più di un attacco di colite».

Il primo racconto della raccolta, Bella senza trucco, da cui è stato tratto il brano riportato sopra, non solo funge da prefazione all’intera silloge ma c’introduce in questa galleria di ritratti femminili, in apparenza l’uno diverso dall’altro ma in realtà riconducibili tutti alle esperienze, ai sogni, alle delusioni dell’autrice.

Accomuna queste figure innanzitutto un senso di precarietà diffuso tanto nel mondo del lavoro quanto in quello degli affetti; a voler essere più precisi dovremmo dire che queste donne sono precarie nella vita in generale dal momento che mancano di certezze e di garanzie, sentono il terreno franare sotto i piedi e avvertono in maniera deprimente la labilità dell’esistenza e l’insignificanza del vivere – Montale avrebbe detto “il male di vivere”. La loro vita è sfilacciata, priva di coordinate capaci di orientare il loro cammino, si sentono frustrate nel loro desiderio di realizzazione e finiscono col rifugiarsi in un angolo a leccarsi le ferite o a cercare compensazioni, il più delle volte altrettanto deludenti, in campo sessuale, come la cinquantenne con un esercito starnazzante di zampe di galline, che incontra o meglio si scontra con una schiera di mezzi maschi vanitosi, imbranati e persino sottodotati e ne esce delusa e ferita. C’è chi, invece, come Pamela, reagisce al senso di fallimento che legittima­mente si avverte alla fine di una relazione, durata sette anni, in maniera grintosa ritrovando nell’attività fisica e nello sforzo quotidiano l’energia necessaria per prendere in mano il proprio destino e per guardare con rinnovata fiducia al futuro.

In ognuno di questi racconti c’è qualcosa di Maria Pia Romano: la mancata maternità vissuta con un senso di frustrazione e di inadeguatezza; l’interesse per lo studio e per la lettura che le hanno consentito di affinare e di rendere sempre più elegante ed efficace la sua scrittura; il suo innato perfezionismo; il suo inguaribile e un po’ ingenuo ottimismo di fondo che le consente di assorbire delusioni e sconfitte e di guardare sempre avanti, l’affetto e la devozione nei confronti dei genitori ottua­genari, per i quali ha parole di profonda e commossa tenerezza.

A dare luce e brillantezza a queste pagine, però, sono soprattutto l’amore incom­mensurabile per il mare, una costante di tutta la sua produzione in prosa e in versi: «Un mattino di sole e mare calmo va goduto: la magia è tutta negli occhi del mare, che si concede senza svelarsi, a chi ha la buona volontà di cercarlo nelle prime ore del giorno» (da Biancamarea, che è anche un omaggio a Gallipoli, la cittadina in cui Maria Pia Romano, originaria di Benevento, ha scelto di vivere); e subito dopo l’amore per la parola, oggetto di cure maniacali e di particolari atten­zioni: «Mi cibo di parole. Le sento dentro di me, le cerco, ne faccio suono e colore. Le parole: meraviglia e condanna, vocazione e disperazione, viaggio infinito, esilio e perdono, carezza del tempo» (da Rosalba e la leggerezza e in quella leggerezza c’è un’eco delle Lezioni americane di Italo Calvino.)

Non mancano neppure, fra i temi trattati, la paura di invecchiare e il ricorso alla chirurgia estetica per sottrarsi alle offese del tempo; il fallimento di una vita familiare non ravvivata dal fuoco della passione né dall’arrivo di un figlio con il quale non si riesce a stabilire, per colpa di entrambi, o solo per negligenza, una corrispondenza di amorosi sensi. Ed è qui che la Romano definisce il confine della solitudine senza costeggiare però la pigrizia esistenziale e neppure il languore depressivo.

Questi racconti sono schegge di vetro di Murano, fragile e delicato, ma capace di riverberare nella sua trasparenza la luce adamantina che brilla in ognuna delle protagoniste; valga per tutti l’ultimo racconto, degna conclusione di questa silloge, che andrebbe studiata nelle scuole per indurre i/le giovani a leggere e, perché no, a scrivere.

Non si può, comunque, tralasciare la Ghost Track, posta in calce ed esclusa come è consuetudine dall’indice generale. Sogno o realtà è pur sempre un varco, praticabile o meno, verso la luce, un progetto o solo un tentativo occasionale di vivere, gettando alle ortiche incertezze e paure e lasciandosi risucchiare dalla passione, alla ricerca del piacere senza freni e inibizioni. È una vertigine dei sensi che attraversa come il Ghibli il deserto di un’esistenza “normalizzata”, un vento caldo che infiamma le vene e i polsi. Ciò se da un lato conferma che chi considera la scrittura un’ossessione totalizzante e maniacale deve necessariamente sacrificare molta parte della propria esistenza (chi scrive, non vive), dall’altro evidenzia la ricchezza umana ed artistica di Maria Pia Romano, nonché quella sensualità che per quanto spinta in profondità da studi scientifici e razionali non potrà mai essere soppressa e continuerà a far sentire la sua voce e a reclamare i suoi legittimi diritti.

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