Flavio Fusi
Cronache infedeli

Il poeta ritrovato

Storia di Juan Gelman, il poeta argentino che per tutta la vita ha dovuto cercare di ricostruire la vita del figlio, della nuora e della nipote straziati dalla dittatura. Le parole e l'amore al tempo dei mostri

«Non è per chiuderci in casa che si costruisce una casa, non è per chiuderci nell’amore che si costruisce un amore». Quale invincibile demone chiede di parlare sempre d’amore – e scrivere sempre d’ amore – a un uomo immerso per la vita in una disperata tragedia personale, famigliare e storica? Juan Gelman, poeta. Padre di Marcelo, suocero di Maria Claudia, rapiti a venti anni dai sicari della dittatura argentina e mai più tornati dai campi di prigionia segreti, i luoghi del tormento che cancellarono una intera generazione. Nonno, infine, di una bambina nata in carcere e della quale si perde ogni traccia.

Per anni quest’uomo mite e sapiente, nato a Buenos Aires da una coppia di immigrati ebrei ucraini, si dedica a una implacabile ricerca: interroga e si interroga senza riposo, scrive lettere, raccoglie firme, denuncia aguzzini mascherati, militari in alta uniforme e protettori politici. Per anni, dopo la fine della dittatura, ragiona di amore e di dolore. Il dolore – scrive – non si dimentica di me.

Se mi dessero da scegliere io sceglierei
questa salute di sapere che siamo molto malati
questa felicità di trovarci tanto infelici.
Se mi dessero da scegliere io sceglierei
questa innocenza di non essere innocente
questa purezza in cui mi trovo impuro.
Se mi dessero da scegliere io sceglierei
questo amore con cui odio
questa speranza che mangia pani disperati.

Nel 1990 arriva al capolinea questa ricerca che coincide con la vita: vengono identificati i resti del figlio Marcelo, ucciso con un colpo alla nuca e sepolto in un bidone riempito di sabbia e cemento. Dieci anni dopo il cerchio si chiude: Gelman ritrova la nipote scomparsa, nata nel campo di prigionia El jardin, tolta alla madre, resa orfana e venduta a una famiglia di Montevideo. La bambina, ora ragazza, è identificata con un numero e la sua storia come altre mille descrive la mostruosità estrema della dittatura: la donna prigioniera viene tenuta in vita fino al parto, dopo la nascita si uccide la madre e si affida il neonato senza nome a famiglie di militari o complici del regime.

A smascherare questo orrore il poeta dedica gli ultimi anni della sua vita. E non è solo, perché in questa missione lo accompagnano le Abuelas de Plaza de Mayo e soprattutto Macarena Gelman, la nipote ritrovata. «Non mi considero un campione dei diritti umani, né tantomeno un simbolo», dice in una delle ultime interviste. «Noi crediamo nel caso. Nel caso specifico, intendo, perché quando si parla di numeri il caso sparisce. Si dice che i desaparecidos siano stati trentamila, centomila, diecimila. E tutte le storie personali – il dolore, la rabbia, la vita – sono assorbite dalla cifra. Al contrario, quando si sottolinea un caso particolare, allora anche tutti gli altri si illuminano. È il volto che riappare, non il numero».

Infine la poesia, il grande amore. Juan Gelman si definisce cronista e poeta («poesia e giornalismo sono buoni vicini che convivono in uno stesso palazzo…»), e si capisce che il richiamo al giornalismo funziona come antidoto contro ogni fuga dalla realtà. La poesia è una buona compagna di strada, ma non è un lasciapassare, non assolve dai peccati e dalle omissioni colpevoli. Troppi poeti, durante gli anni della dittatura hanno volto lo sguardo altrove, troppi si sono rifugiati nel vuoto delle parole.

I poeti muoiono di vergogna,
nessun decreto li proibisce,
nessuna radio li calunnia,
i poeti muoiono di vergogna.

Certe volte, di notte,
si vede passare un poeta a cammello…
peccato, peccato, dicono le vicine:
era tanto un bravo ragazzo.

Molti di loro si ritrovano senza coglioni
nel momento culminante della passione:
non fa nulla, scrivono una poesiola
giusto per la posterità.

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