Alessandro Macchi
Un libro in uscita

Ghirigori dei pensieri

Anticipiamo le pagine iniziali di "Desmè" un libro di Alessandro Macchi: frammenti di memoria di un ingegnere che ha girato il mondo scoprendo culture, idee e lontane invenzioni

Devo accelerare i tempi, correre, precipitarmi per dialogare ancora con le opere mie e di quelli che mi hanno preceduto: sono il mio patrimonio interiore. Oltretutto il cognome Macchi sta a indicare, in una certa etimologia, quelli che costruivano “cum machinis”, gli argani, le gru e gli attrezzi degli ingegneri dell’antica Roma e, nelle memorie di famiglia, tramandate da mio padre, trovo avi costruttori come il nonno Ambrogio, e ferrovieri, come mio padre.

Da dove cominciare?

Niente è più difficile di fare un ritratto di fatti che si conoscono troppo.

Seguire una cronologia? Forse è un metodo sicuro, ma non rispecchia i ghirigori dei pensieri.

Mi sono guadagnato amicizia e vino con la mente, l’inchiostro, la terra e le pietre; cercherò di tradurre in parole l’energia che ha sostenuto le mie principali esperienze.

Lekempti, Etiopia 1965. Ero rimasto a lungo, nella calda oscurità seguita subito al tramonto, a rimuginare in silenzio nel mio pensiero, le amare pagine di quei giorni.

La stanchezza e la notte insieme portavano le mie idee confuse a mezza strada fra una cocente disillusione e un’allucinata amarezza, e la brezza con i suoi profumi non distoglieva dalle sgradevoli riflessioni.

La luna, correndo tra un mondo di nubi volanti di ogni dimensione, forme e densità, alcune nere come inchiostro altre delicate come batista, spargeva la meraviglia del suo bagliore sulla scena amata e ora quasi estranea delle Ambe, là, incombenti, coronate in cima dalle nuvole dell’ultimo monsone.

Giù, mille metri più in basso, nella savana, un mareggiare di specchi sui prati dei nuovi germogli umidi di rugiada come frange lontane, imbiancate da una lanterna cieca: specchi come sogni? Sullo sfondo, quasi indistinta, l’amba di Ghimbi a 1700 mt di quota, l’arrivo della nostra strada, che si stava costruendo sotto la mia direzione di trentenne Project Manager dell’opera.

La landa intorno al cantiere, sotto il cielo notturno, aveva quell’aspetto inquietante dei luoghi che un tempo da ragazzo a Castagnito d’Alba percorrevo con un fremito di paura, misto tra panico e desiderio di assistere d’improvviso ad apparizioni magiche o a sortilegi.

Dunque lascerò il cantiere della mia Highway di 111 chilometri la Lekempti Ghimbi dopo un anno di durissime lotte. Rimane solo la formalità, domani, della mia partenza.

La “guerra delle pietre”, dichiarata dal Resident Engineer americano Mr. T., è perduta.

Rivado con la mente alle opere che mi hanno impegnato giorno e notte, i chilometri e chilometri delle pietre dei muri di basalto durissimo spaccato a mano, scheggia su scheggia, da migliaia di uomini secondo le inflessibili specifiche delle F.P. 61 americane per la faccia vista dei muri: in ogni pietra una goccia di sangue degli operai indigeni e il finale “disapproved” di Mr.T. per alcuni centimetri di differenza dalle specifiche dimensionali dei blocchi di pietra … i cinque milioni di mc di movimento terra … gli otto ponti grandi e i quattordici più piccoli, il ruggire dei cento mezzi di scavo … i tucul dei tremila operai etiopi con le loro famiglie, il nuovo villaggio di diecimila anime …

Poco prima avevo ricevuto l’addio dei miei uomini, Franco innanzitutto, il capo cantiere forte, audace, sensibile, mio sostegno nei momenti delle difese indebolite nella lotta; poi avevo stretto le mani dure e callose dello staff italiano, e ora, qui vicino a me, appoggiato alla parete di legno, vedevo il quadro regalatomi da Daniel, un geometra etiope che l’aveva dipinto per me. Era venuto con un gruppetto silente di uomini in sciamma bianco, quello delle feste, a darmi un saluto; c’era Jasu, Wasihum il carpentiere falegname che si era prostrato in ginocchio nonostante le mie decise rimostranze …

Rivedevo il viso della piccola malata Workitè là, al campo del ponte sul fiume Maka …

Mi bruciava come non mai il “licenziamento” di Barbara, avevo già pronti gli anelli per le imminenti nozze via via rinviate per la guerra senza quartiere con Mr. T., poche parole su un mezzo foglio giuntomi la settimana prima col camion di Fontanini che ci portava anche la posta.

Ma, in me, nel profondo, in quella lotta appassionata che mi vedeva al momento perdente, sentivo indistintamente che, se anche la “finestra di lancio” della grande opera all’estero si era chiusa, i pensieri neri non arrivavano al nocciolo duro della mia anima; sarei sopravvissuto, non avrei cessato di combattere o cercato una fuga. No.

Forse mi appisolai lì, sulla poltroncina del soggiorno di tramonto della mia casa fatta da Wasihum con lo zigba, il legno profumato, orba della desiderata presenza. Continuavo a rivedere tutta l’avventura, che ora si chiudeva, come in un film in bianco e nero via via più sbiadito, pronto per una cineteca.

Mi svegliai o sussultai, erano le 5,30: mi spostai nel soggiorno dell’aurora, sempre quasi improvvisa là, sotto il tropico, alla quota del cantiere di 2100 metri.

Vi fu un minimo e quasi impercettibile albeggiare da oriente: giunse un chiarore a cui seguì una pennellata di un ineffabile, fioco, indefinibile colore tra il cremisi e l’argento, infine tizzoni incandescenti luccicarono un po’ sulla linea dell’orizzonte e rifulsero per dissolversi via via e diffondersi nel cielo, sebbene la notte e le stelle continuassero a regnare. Un momento, e l’intero oriente splendette d’oro e di scarlatto e la volta del cielo fu invasa dalla luce.

Mi accorsi del rumore degli animali vicino ai tucul e altri rumori rustici, poi ecco il fumo salire dai tetti di fogliame e il crepitio del fuoco. I sentieri si animavano di figure veloci, uomini di corsa verso il cantiere, donne con l’anfora per l’acqua, altri con pochi prodotti del misero orto avviati verso il mercato di Lekempti, la piccola città capitale del Wollega quindici chilometri più a sud. E il rumore sordo della torma di motorscrapers e dei bulldozer in avvio.

Sentii l’implicito vincolo di lealtà nella tacita scelta di vita di tutto il mio cantiere con un diffuso calore e una stretta tonificante dei muscoli, frutto del lavoro comune, svolto con senso di fratellanza, e mi confortai.

Il pensiero andò d’improvviso, insistente, al paesello avito dove ero sfollato durante la guerra, a Castagnito d’Alba tra le vigne.

Al rientro in Italia sarei tornato subito là, ai tempi delle origini.

Castagnito d’Alba. A Castagnito stavo riflettendo nelle morbide tonalità autunnali in una nobile osteria: non c’era nulla programmato per me ma mi sentivo come un atleta ignoto pronto per una sfida e via via la bellezza del luogo amico mi portava a un vuoto sereno…

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Il libro “Desmé” di Alessandro Macchi è pubblicato dal Centro Studi Piemontesi-Ca dè Stùdi Piemontèis, Via Ottavio Revel, 15b 10121 Torino. Per informazioni e acquisto: www.studipiemontesi.it, info@studipiemontesi.it

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