Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Argentina di Roma

Le belle e la Bestia

Presentato in prima nazionale al Teatro Stabile di Torino nella primavera 2018, il “Don Giovanni” di Valerio Binasco arriva al Teatro Nazionale di Roma a gennaio 2019. Regia discreta al limite del timoroso per indagare una delle figure più celebri, paradossali, irruente e intramontabili del teatro

Chi è Don Giovanni? Il seduttore seriale, il collezionista di donne, il libertino ostinato, il cavaliere spagnolo che cento in Francia, in Turchia novantuna conquista le donne di ogni dove e di ogni età. Don Giovanni non è solo questo. Il regista Valerio Binasco si pone lo stesso interrogativo e propone la sua riflessione dietro la filigrana dello spettacolo andato in scena al Teatro Argentina di Roma dall’8 al 20 gennaio. Don Giovanni è un uomo. O un uomo con una donna, come suggeriscono le didascalie bianco su nero proiettate in apertura. Il Don Giovanni di Binasco si caratterizza per un alto tasso di energia vitale: è un vulcano fatto di carne e ossa, di desideri, istinti, slanci e impulsi. Un concentrarsi irresistibile che lo spinge a cercare la libertà a qualsiasi prezzo, la libertà per la libertà. E alla fine, proprio della superiorità incontestabile della libertà diventa schiavo e infine succube. Fino alla morte surreale tra le fredde braccia del Convitato di Pietra. Lo interpreta Gianluca Gobbi, con la giusta dose di volgarità e virulenza richieste dal personaggio. Niente galanterie, niente vestiti ricercati. Gobbi appare in scena con una giacca di pelle nera da motociclista e gli anfibi; nell’andatura come nell’eloquio si manifesta la bestia dietro l’uomo.

Allo «sposatore a getto continuo», al libertino ateo, tiene testa il servo Sganarello (Sergio Romano). Rispondendo agli antichi precetti della commedia dell’arte, ha un accento che ne suggerisce la provenienza lombardo-veneta ed è sempre affamato; è pauroso ma di buon cuore. Ha una moralità basata sul buon senso del comune cristiano che mal si adatta a quella – assente – del padrone. Sempre appaiati, sempre complementari: nella dialettica servo-padrone ricreata da Binasco, i riferimenti all’assurdo beckettiano sono evidenti. Ne sia testimonianza la bombetta indossata da Sganarello nel secondo atto al momento di disquisire dell’esistenza di Dio (l’eterna attesa di Godot in fondo). Sergio Romano riesce nel non facile compito di garantire un collante tra l’alternarsi di personaggi, scene e situazioni; funge all’occorrenza da grillo parlante e da personaggio cerniera. A lui solo infatti sono affidati gli interrogativi retorici, i commenti fuori scena e gli ammiccamenti al pubblico.

Lo spettacolo scorre, ma senza scintille. I tempi comici non sono effervescenti. Siamo lontani dal clima festoso e travolgente stigmatizzato da arie e danze mozartiane. Non convincono Lucio De Francesco e Elena Gigliotti, troppo artificiosi nel ruolo della coppia di popolani. Poco chiara anche la scelta linguistica che mescola registri e dialetti, passando senza soluzione di continuità dal veneto al napoletano fino alla dizione perfettamente impostata di Donna Elvira (una Giordana Faggiano più enfatica e dolente che disperata e melodrammatica). Non mancano gli imprestiti al vocabolario dapontiano, come l’epiteto «scellerato» che ritorna a rotazione sulle labbra dei personaggi per riferirsi a Don Giovanni; oppure quel «vorrei e non vorrei» che riecheggia il duetto Là ci darem la mano tra lo Scellerato e Zerlina. Il melting pot linguistico si riversa anche nelle musiche (a cura di Arturo Annecchino): si passa dal rock alle sonate per archi e clavicembalo di gusto settecentesco, senza disdegnare gli effetti acustici come i tuoni in stile film horror anni Quaranta. Una certa propensione per l’ironia tragica e l’antifrasi pongono Stairway to Heaven dei Led Zeppelin in apertura di spettacolo, dal momento che la strada che Don Giovanni percorre lo condurrà inesorabilmente all’Inferno, non al Cielo al quale non crede e contro il quale spergiura. Di tono descrittivo invece è l’impianto visivo costruito dalla combinazione delle scene di Guido Fiorato, dei costumi di Sandra Cardini e delle luci di Pasquale Mari che rendono la scatola scenica un enorme ritratto di Dorian Gray: decadente e fatiscente, di uno squallore e di un degrado che sono il riflesso della decomposizione morale. È il dramma del contemporaneo che combatte la solitudine e l’horror vacui con l’avventatezza e l’accumulazione piuttosto che con solidi legami umani affettivi. Eppure non v’è spazio per un moto di sim-patia o di com-passione per il libertino. E il pubblico convitato resta di pietra.

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