Danilo Maestosi
Alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma

L’arte inorganica

La complessità della vita non si presta al pensiero debole. Se ne volete una dimostrazione, andate a visitare la (furba) mostra intitolata "Ilmondoinfine": non bastano semplici intuizioni per capire le cose

Ilmondoinfine. È il titolo intrigante che battezza la mostra appena inaugurata alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma e in cartellone fino al 23 gennaio. Un testacoda verbale a doppio senso, di quelli che piacciono tanto ai curatori d’ultima generazione cresciuti nella placenta del pensiero debole (qui si presentano in cinque: Ilaria Bussoni, Simone Ferrari, Donatello Fumarola, Eva Macali, Serena Soccio), perché tracciare i confini di uno spaesamento irreversibile consente loro di offrirsi come bussole privilegiate e ritagliarsi un’identità di arbitri del gioco: la scelta degli attori da portare in scena, l’allestimento e la disposizione dei pezzi sulla scacchiera, le divagazioni di contorno e in catalogo.

Quell’infine sta ad indicare un mondo al collasso, a fine corsa appunto, e insieme, trasformato in avverbio, il presente di un nuovo modo di abitarlo nella sua complessità, liberi dall’impaccio e dal pregiudizio di considerarsene unici padroni. Ad una dozzina di artisti, convocati per l’occasione, il compito di testimoniare questo tempo di futuro in sospensione, al quale il sottotitolo, “Vivere tra le rovine”, toglie per fortuna vaghezza. E l’opportunità di cimentarsi a disegnare una mappa di questa sorta di terra di mezzo di devastazione e incertezza, oscillando tra sfacelo e indizi di rigenerazione. Una equidistanza concettuale che condanna questa mostra ad un impatto dimezzato, conseguenza inevitabile del rifiuto o della difficoltà palese dei curatori a schierarsi e di molti autori ad assumersi la responsabilità di prendere posizione per non perdere posizioni.

Peccato, perché il prologo della prima sala , occupata da un’istallazione di Emanuele Becheri è davvero travolgente: che impeto in quei video disposti come quadri a fasciare le pareti dove scorrono macchie di colore mescolate e scagliate verso il nostro sguardo dalle onde di un torrente in piena. In tutte o quasi le altre opere quel modo di rileggere la natura e le sue mutazioni si trasforma in uno spettacolo recitato sottovoce. Morbido e fin troppo sbiadito da un senso di già visto quel tappeto ammiccante, una tessitura di colori d’oriente che accoglie quattro piante grasse e spinose da deserto, su cui Fiamma Montezemolo ci invita a sdraiarci. Elegante ma algida l’istallazione, una fila di trespoli, ampolle, contenitori di vetro pieni di frammenti di ceramiche, piante in vaso, con cui Chiara Bettazzi trasforma in catalogo di macerie, schegge, relitti di un tempo perduto l’incanto che per secoli ha accompagnato le camere delle meraviglie di tanti collezionisti di bizzarrie naturali. Fin troppo patinato il tondo nel quale, inseguendo la sguardo romantico di un viaggiatore del Grand Tour, Gigi Cifali ha incastonato la foto virata in rosa caramello di una curiosa veduta del versante del Vesuvio che dà sulla sua Torre del Greco: una vegetazione lussureggiante che ingentilisce, come la sagoma di un tempio pagano, e sembra destinata a inghiottire lo scheletro sgraziato di una casa abusiva bloccata in corso d’opera. Irritante per la sua pretesa concettuale di trasformare ogni ragionamento in racconto senza infondere nella propria opera la possibilità di narrare, l’istallazione di Gian Maria Tosatti: una teca di vetro piena di polvere, poggiata con vezzo estetizzante su una cornice dorata. La polvere – spiega – è la traccia della storia passata di disastri e orrori rimossi del Novecento che recupera ed espone mescolata alla polvere del nostro presente, testimone di nuovi abomini, nuove tragedie messe in atto da poteri sempre più invisibili.

Minimalista ma non privo di fascino il contributo di Massimo Turco: una lastra di marmo, che l’autore ripropone con il suo corredo di imperfezioni, accentuandone la grafia con un tracciato di linee a pennarello. Accanto, a sottolineare però la povertà inesorabile di questo artificio, gli allestitori hanno esposto l’incavo di un geode, un esplosione straordinaria di segni, escrescenze, onde di materia e colore di folgorante astrazione, che annichilisce ogni confronto. La Natura come serbatoio infinito di forme, voci del regno inorganico e di quello vegetale, che precedono, anticipano, suggeriscono e alla fine sovrastano la creatività della specie umana. Ce lo dimostra con asciutto rigore il campionario di immagini assemblate dal tedesco Chistoph Keller. Sotto, le foto di statue e di templi greci, sopra quasi a nasconderle la sagoma di una foglia con il suo reticolo geometrico di venature che all’ordine della cultura ellenistica sovrappone una nuova misura, distillata da un universo altro. La stessa misura , sembra dirci un ultimo montaggio – una  pianta che si dirama a ventaglio nella conca del teatro di Epidauro – che probabilmente ha ispirato e dettato norme e proporzioni a quell’architettura così perfetta.

A fine tragitto resta forte il dubbio che i registi di questa mostra, dopo aver scagliato nello stagno delle nostre inquietudini il sasso di una apocalisse già in atto e indicato la via di fuga  in una rinnovata attenzione verso gli universi paralleli della vita animale, vegetale e inorganica, si chiamino e ci chiamino fuori della contesa. Come se quel che sta accadendo all’uomo, alle sue paure di dominatore spossessato, e al suo habitat, fosse un processo indolore, senza traumi, resistenze, conflitti. E non esistessero artisti più inquieti e impegnati che, a differenza di quelli convocati, trovano la loro dimensione nella rappresentazione di questa trama ben più coinvolgente e drammatica. Ma solo pedine da muovere a piacimento sulla scacchiera di un gioco esclusivamente mentale. Come quel mazzo di tarocchi esposto come cimelio di contrappunto in una bacheca dell’ultima sala.

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