Filippo La Porta
A proposito di “Dal mare l’amore”

Santoni e l’anima

Lucilio Santoni, con una favola filosofica, affronta un tema stringente: gli esseri umani non hanno un’anima perché troppo occupati nelle sciocchezze quotidiane? O l'anima è nell'abbandono?

Bisognerebbe leggere questa bella favola di Lucilio Santoni – Dal mare l’amore (Ianieri), rilettura di un racconto-parabola di Oscar Wilde (Il pescatore e la sua anima), che un  po’ richiama il mito greco, un po’ Le mille e una notte e un po’ le Città invisibili di Calvino, e che è scritta in una lingua di grande semplicità poetica – dopo aver visto la quarta puntata della settima stagione dei Simpson: “Bart si vende l’anima”. Vediamo di che si tratta.

Nella favola di Santoni, l’imperatore si illude di poter comprare l’anima, nei Simpson Bart ritiene possibile vendersela. E sbagliano entrambi. Bart convinto che l’anima non esiste, poiché non si vede, decide di venderla al suo migliore amico Milhouse per 5 dollari, anche se Lisa tenta di dissuaderlo. Da quel momento, la vita di Bart peggiora, si impoverisce, le porte automatiche non si aprono quando passa, gli amici non lo chiamano più… Disperato tenta di riacquistarla, e dopo un giro tortuoso in cui non la trovava più, ecco che scopre che gliela aveva ricomprata Lisa. La puntata finisce con una riflessione di Lisa: «Alcuni filosofi credono che nessuno sia nato con un’anima, e che devi guadagnarne una con la sofferenza». E in effetti noi potremmo dire che anche se l’anima nessuno l’ha mai vista, come nessuno ha mai visto Dio («Deum, nemo vidit umquam», Vangelo di Giovanni), pure senza credere in un’anima diventa difficile dare un senso a concetti come la responsabilità personale e la libertà della volontà, o a “valori” che sono poi le condizioni della nostra esistenza.. L’anima è la metafora di tutto ciò che non possiamo vendere (né comprare): e cioè l’amore anzitutto, e poi  l’amicizia, la gratitudine, l’aiuto disinteressato a qualcuno, l’ispirazione artistica, una esperienza interiore che ci fa percepire l’unità misteriosa del tutto… Insomma: il  meraviglioso spazio del gratuito e dell’inutile.

Torniamo al testo di Santoni. Vi si dice che gli esseri umani non hanno un’anima perché troppo occupati nelle sciocchezze quotidiane, nell’inautentico, direbbe un celebre e forse sopravvalutato filosofo (e cioè nella chiacchera, nella ricerca continua di distrazioni, e nell’equivoco). Dovrebbero invece non tanto pensare alla morte quanto pensare alla propria mortalità, essere rivolti verso la morte come estrema possibilità. E poi vi si dice che per averla, occorre dannarsela: ecco, questa è una idea un po’ dostoevskjiana, e cioè che la vera purezza ce l’ha solo chi l’ha persa, e che bisogna attraversare, anche dolorosamente, i contrari per arrivare a una verità su di sé. Ma soprattutto in queste pagine leggiamo che l’anima arriva quando ci si prepara ad accoglierla. Questo è il passaggio decisivo. Non ha l’anima chi si propone di conquistarla, con uno sforzo o con l’ostinazione. No, la conquista dell’anima non dipende dalla nostra volontà. Tutto quello che possiamo fare è tenersi pronti, vigili, prepararsi ad accoglierla. Un insegnamento altissimo. La verità di qualsiasi cosa, nella vita, ci accade: non la pianifichiamo né la produciamo noi (altrimenti non avrebbe senso la espressione “ricerca della verità). Dobbiamo però sviluppare l’attenzione e tenerci pronti, perché, in termini teologici, Gesù Cristo tornerà, per la seconda volta, come un ladro di notte, a sorpresa. Qui c’è l’idea che è stata di Benjamin tra l’altro, della verità come morte dell’intenzione: la verità si schiude all’improvviso ma in quel momento non dobbiamo essere distratti.

Con un salto arriviamo a Proust. Giacomo Debenedetti torna ben due volte su un episodio della vita di Proust, rivelato da un amico nel 1923, e particolarmente illuminante. Proust e l’amico vanno nel parco di una villa dove c’è un roseto del Bengala. Lungo la strada, l’amico continua a camminare ma vede che Proust si è fermato davanti alle rose, come in contemplazione, socchiudendo gli occhi e annusandole a lungo. Così commenta Debenedetti: «L’atteggiamento di Proust fermo con attenzione appassionata davanti le rose del Bengala, non ci deve trarre in inganno. Qui non è un Proust, che si stacchi dal compagno e dai rapporti della vita quotidiana, per concentrarsi e cercare l’essenza di quelle rose: anzi, all’opposto, è uno che si espone a farsi cercare dall’essenza delle rose. O meglio – perché fu in questo “farsi cercare” è contenuta una idea ancora troppo pronunciata di attività – è un Proust che si abbandona a lasciarsi tentare e sedurre dall’essenza di quelle rose». Dunque: essere pronti a ricevere l’anima, abbandonarsi, lasciarsi sedurre, farsi cercare dalla verità di qualcosa senza pensare di possederla. Qui si esprime una idea diversa di conoscenza: conoscenza non come dominio, conquista, oltrepassamento, ma come attesa, passività ricettiva, abbandono di sé all’altro (Debenedetti la associa a Sartre e a una pagina di Husserl).

Santoni aggiunge un’altra cosa: l’anima viene attratta dalla poesia. La poesia è l’unica cosa che, in un mondo secolarizzato, allude a una dimensione altra, imperscrutabile, invisibile eppure molto reale, la dimensione del sacro. Quasi memoria di un nostro accordo segreto con l’universo. Oggi la poesia è l’equivalente laico della preghiera. Alla fine del racconto, il parroco che dovrebbe parlare della collera di Dio invece odorando i fiori bianchi sull’altare (raccolti dove erano stati seppelliti il Pescatore e la piccola Sirena) parla dell’amore, che non chiede mai niente (un amore in cui potrebbero ricomporsi eros e agàpe).

Infine: nel racconto si legge che nel Sud ci sono «le cose preziose della vita». Poi l’“anima” racconta di una città dove ha degustato il vino Shiraz, dolce come il miele, i fichi dalla polpa pulpurea, i meloni profumatissimi color topazio… Insomma l’anima qui non è spiritualista! Non disprezza affatto i beni terreni e le passioni sensuali e  le dolcezze del vivere, di cui ci offre un elenco rigoglioso. Proprio come Dante, che non simpatizza propriamente con catari e apocalittici e neoplatonici, dato che è profondamente cattolico e antignostico. Conoscendo un po’ Santoni ho l’impressione che la sua utopia (parola che non amo particolarmente ma che uso qui in senso lato: non rinvio al futuro ma forma ideale e desiderabile di vita), è fatta precisamente di  amore gratuito, diffidenza anarchica verso ogni potere, allergia per i pregiudizi, e di poesia intesa come rinuncia al controllo e apertura all’altro.

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Accanto al titolo, un’opera di Cy Twombly

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