Giuseppe Grattacaso
A proposito de "L'intervista"

Il ragazzo e il prof

Il nuovo romanzo di Giorgio Manacorda, dietro uno slittamento amoroso nasconde una riflessione (attualissima) sul rapporto tra chi domanda e chi risponde, ossia tra chi impara e chi insegna

Un anziano scrittore incontra per un’intervista un giornalista alle prime armi. Lo scrittore è stato professore universitario («Non chiamarmi professore – intima però subito al più giovane – non insegno da trent’anni») ed è fin dall’inizio reticente, dice e non dice: le notizie biografiche che l’altro vorrebbe conoscere, quelle che rappresentano il sale di ogni intervista, arrivano soprattutto da un romanzo che lo scrittore sta componendo, che forse legge, forse racconta al giornalista («Ho capito. Lei parla di sé quando non parla di sé» dirà il ragazzo in cerca di un qualche appiglio per costruire il suo articolo). Ma è chiaro, si tratta pur sempre di letteratura e dunque di finzione. Cosa si può ricavare dalla vita di un uomo attraverso le pagine di un romanzo? È vero, d’altra parte, come dichiarerà lo scrittore, che «la falsificazione integrale è l’unica possibilità. Forse l’unica verità».

In ogni caso, a quanto lui stesso confessa, lo scrittore legge al giovane quello che ritiene sarà il suo ultimo romanzo e gli sta concedendo la sua ultima intervista. Appare evidente come non gli interessi tanto raccontare la sua vita, quanto esporre le conclusioni a cui è giunto, intrattenere una sorta di duello vis à vis con il giovane che ha di fronte, il quale sembra convinto, credendo alle sollecitazioni e alle circostanze del mondo in cui vive, che la realtà sia più semplice, o meglio più facilmente accessibile, di quello che in effetti è. Il tono dello scrittore è appassionato, a tratti ironico o sarcastico, come di chi è disposto a esporre le considerazioni a cui età e saggezza l’hanno condotto, ma non credendo nemmeno poi tanto ad esse.

L’intervista (Castelvecchi editore) è il nuovo romanzo di Giorgio Manacorda, che si compone delle domande e delle risposte dei due protagonisti (ma non è sempre l’intervistatore a porre le domande, né l’altro ad accettare il ruolo che dovrebbe assumere, e anzi le parti finiscono spesso per invertirsi e sovrapporsi) e dei brani del romanzo che lo scrittore, nella finzione, sta costruendo. Il giovane giornalista vorrebbe sapere di più sugli eventi che hanno caratterizzato la vita del narratore e si trova invece davanti, come si è detto, alle sue riflessioni e alle pagine di un narrazione. Si tratta di un romanzo d’amore, anzi di un romanzo sull’amore, ma il giornalista, e con lui anche il lettore, hanno a che fare con una narrazione volutamente frammentata, che si interrompe di continuo, che opera dei repentini salti temporali nella vicenda del protagonista, che peraltro è identificato solo come “il ragazzo”.

«Ma un nome ce l’ha il suo protagonista?», chiede il giornalista. «No, non ce l’ha. E perché? Il ragazzo è chiunque e vive dappertutto», decreta lo scrittore. Che poi significa non solo che la letteratura, quando è tale, parla almeno un poco a ognuno di noi, che ci riguarda da vicino se non da dentro, ma anche che in questa storia (insomma nel romanzo contenuto all’interno del romanzo L’intervista) ci sono diverse storie che si intrecciano e che finiscono per alimentarsi reciprocamente, per contraddirsi anche, infine per farci capire che i romanzi vorrebbero dirci un mondo in cui le vicende hanno un inizio e una fine, una loro statuaria definizione, ma questo nella realtà è in effetti impossibile. «Ti potrei dire – sentenzia lo scrittore – che nella vita tutti i conti tornano, ma senza alcun senso. Quadrano solo nella finzione. Nella vita non ci sono geometrie. Ci sono solo coazioni a ripetere».

Questo continuo, disorientante e godibilissimo, trasferirsi dalla fiction del romanzo (che è finzione nella finzione) alla apparente realtà dell’intervista (che è ovviamente finzione anch’essa) rende possibile una serie di considerazioni sull’amore, sulla letteratura, su come è cambiato il mondo con l’avvento di una tecnologia sempre più avanzata e di conseguenza su come si sono modificati i rapporti personali, insomma sulla vita in generale.

L’intervista è, tra le altre cose, anche un libro dove si esprimono riflessioni sulla centralità della letteratura e della poesia nella esistenza dell’uomo, una centralità peraltro sommamente disattesa, come si palesa più volte nel dialogo tra i due interlocutori. “Siamo quanti di energia”, afferma a un certo punto dell’intervista lo scrittore. «Si può dire che questa è la morte?» chiede il giovane intervistatore. «Ma anche la vita» replica lo scrittore, che conclude: «Solo la poesia fotografa, racconta, ferma nel mondo per un attimo la struttura volatile della materia che siamo, con gli altri esseri viventi, predatori e vittime, alberi e fiori».

È comunque il tema dell’amore l’argomento su cui si confrontano principalmente i due protagonisti ed è il contenuto della storia che lo scrittore racconta. È dalla riflessione sull’amore che scaturiscono tutte le altre. L’intervista è del resto un romanzo sull’amore come se ne scrivono pochi. Infatti non è una storia d’amore a costituirne il nucleo, ma tutte le possibili storie che nella vita di un individuo l’amore può diventare. È insomma un romanzo sull’amore senza definizioni e senza pregiudizi, senza moralismi e senza romanticherie, senza tanti aggettivi che possano definitivamente farci sapere che cos’è davvero e dove porta questo sentimento. È una meditazione sulla sua fondamentale necessità nella vita di ognuno, ma anche sulla impossibilità di trovare una soddisfazione fisica nel rapporto con un’altra persona senza che ci sia nel contempo qualcosa di più profondo. Eppure tutto questo non porta a ritenere che debbano esserci limiti nei modi in cui il corpo può esprimersi insieme al corpo dell’altro («Ma lui sapeva che toccandole il corpo le toccava anche l’anima, e sapeva che toccandole l’anima le toccava anche il corpo»).

L’intervistatore finisce per partecipare anche lui al gioco che lo scrittore impone, anzi sembra essere l’unico a svelare qualcosa di vero su se stesso. Comunque anche in questo caso si tratta di qualcosa di reale e di incerto nello stesso tempo: lui che inizialmente ostentava qualche sicurezza, alla fine del processo maieutico a cui è sottoposto, può proporre solo domande.

Giorgio Manacorda è riuscito a costruire una narrazione veloce e coinvolgente, varia ed essenzialmente compatta, pur in presenza di una materia articolata, senza che si avverta la necessità di un intreccio che possa portare per mano il lettore verso un luogo di approdo definito. Il quale lettore infine è costretto a porsi un interrogativo, che è lo stesso che si pone anche il giornalista: quanto c’è di autobiografico in questo romanzo? «Ma quanti anni ha il suo protagonista? Tutti. Come tutti? Tu sei un ragazzo. E allora? Anche io sono un ragazzo. Ma che dice? Si rimane ragazzi per tutta la vita. Vuol dire che non si cresce mai? Io di sicuro non sono mai cresciuto».

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