Rosanna Valentino
Una prospettiva inedita all'Avana

Malecón mediterraneo

Viaggio nella frontiera del sogno cubano: da Malecón al mare, un territorio pieno di storia, di sogni e di suggestioni europee. Lì dove la rivoluzione castrista incrocia l'utopia

Viaggiare in una città diversa da quella nella quale si vive significa abbandonare il proprio microcosmo per tuffarsi in uno spazio sconosciuto. Per non perdersi del tutto in questa nuova geografia, sarà quindi necessario individuare l’identità profonda del luogo e ascoltare i suggerimenti che essa ci propone. E, nel caso dell’Avana, questa identità profonda non può che derivare dal suo rapporto con il mare e dal suo Malecón che separa e unisce i due mondi. L’Avana esiste grazie al mare, alla vasta baia piena di navi e fortezze militari, che ne fecero la terza città più importante dell’impero spagnolo, dopo Città del Messico e Lima. Per tre secoli essa fu il punto di ritrovo dei galeoni che provenivano da tutte le colonie americane, per poi proseguire verso Siviglia carichi di ricchezze e scortati da navi da guerra per difendersi nella lunga traversata dagli attacchi dei pirati e dei corsari inglesi.

Soltanto nel secolo XIX, questa affascinante città coloniale, darà le spalle al mare, trovando nella canna da zucchero quella ricchezza che le permise di costruire splendidi edifici e di mutare il suo rapporto con quel deserto di acque azzurre che era ormai diventato solamente un elemento decorativo del paesaggio. Nella seconda parte del XX secolo, a seguito del blocco conseguente alla rivoluzione castrista, il rapporto fra la città e il mare mutò di nuovo: il lungomare si convertì «nella frontiera tra la realtà e il sogno di avere una vita differente» da quella nella quale i cubani erano costretti a vivere. A quel punto, per lo scrittore Virgilio Piñera fu facile esclamare: «La maledetta circostanza del mare dappertutto».

A partire dal 1959, il Malecón fu quindi il segno della frontiera della Nazione intera, procurando per lunghi decenni un forte sentimento di insularidad. Questa strana e irrisolta condizione è evidente in tutta la letteratura e l’arte, e ogni scrittore la vive e l’ha vissuta con un ambiguo sentimento di amore-odio… «la maldita circunstancia del agua por todas partes». Il ritmo delle onde che entrano nella città, i colori unici del tramonto, l’odore e la presenza di quel liquido immenso sono una forza ed una maledizione che accarezza e spaventa la tranquilla quotidianità dell’isola. Reinaldo Montero in Paseo del Malecón definisce il lungomare avanero «un monumento consacrato alle ansie che cominciano e finiscono nel mare» – il luogo dove ad occhi chiusi si dà spazio alla fantasia ma «…al abrir los ojos, el mar sigue igual de negro y el muro igual de duro y el resto de la realidad vuelve a instalarse donde siempre…».

Seguiamo allora il percorso di questo tratto della costa disegnato dalla mano dell’uomo. Il Malecón sembra nascere, a occidente, dalla profonda insenatura del Río Almendares, che porta l’oceano stesso nelle viscere della città. Nella baia che si forma alla foce del fiume, troviamo alcune piccole propaggini di terra, dove si ammira prima di tutto il basso e massiccio Torreón de la Chorrera, che proteggeva l’ingresso della città, costruito nel XVII secolo e conosciuto come Fuerte de Santa Dorotea de la Luna de la Chorrera. Era un forte dotato di cinquanta uomini e undici cannoni sotto il comando dei governatori spagnoli, che oggi ospita più prosaicamente un restaurante. Il suo primo architetto, Juan Bautista Antonelli, detto El Mozo, era di origini italiane (il padre essendo nativo di Gatteo Mare) e faceva parte di una famiglia di progettisti di fortezze al servizio della corona spagnola. A fianco di queste vestigia secolari compaiono alcune tracce eccentriche, un piccolo giardino giapponese, dove piante grasse sono state inserite tra rocce e pagode e un padiglione ottocentesco di stampo arabo, la Glorieta Mudéjar, rievocante lo stile musulmano che sopravvisse nel medioevo spagnolo della Reconquista cristiana.

Questa zona della città è caratterizzata dal monumento dedicato alla Fuente de las Américas, che segna l’inizio della Quinta Avenida (arteria che doveva rievocare la Quinta Strada di Manhattan); da non perdere, nelle vicinanze, la Fábrica de Arte Cubano, un museo eterogeneo e pieno di vita, nelle cui “navate” trovano spazio tutte le possibili arti, dal design moderno, al folclore locale, dalla cucina alla musica.

Muoviamoci ora verso oriente, percorrendo il Malecón vero e proprio. Se ogni tanto resistiamo al richiamo del mare e volgiamo lo sguardo alle nostre spalle, scorgiamo chiari segni della dominazione coloniale, con file di piccoli edifici porticati, scrostati dalla salsedine. Un sentore di Mediterraneo, in una variante messicana, in questo profilo variegato di case di vari colori e diverse altezze, punteggiato da arcate anche ai piani superiori degli edifici.
La strada a sei corsie che corre tra questi e il mare, e che doveva servire appunto a separare la città dalle mareggiate furiose del tropico, fu inaugurata nel 1901 dal governo di occupazione statunitense, che aveva appena strappato Cuba alla Spagna e subito dovette lasciarla alla prima Repubblica Cubana, proprio in quell’anno di inizio secolo. Lungo il percorso verso est, passata la Feria de los artesanos de La Rampa, dove abbondano oggetti di artigianato tipico, troviamo alcuni monumenti, come quello – chiaramente ispirato al patavino Gattamelata di Donatello – dedicato al Mayor General Calixto García, uno dei protagonisti delle tre guerre di indipendenza dal colonialismo. In corrispondenza di questo monumento equestre, si trova la Casa de las Américas, istituto culturale dedicato alle relazioni tra Cuba e gli altri paesi latino-americani. Dopo la sede dell’ambasciata statunitense svetta un altro cavaliere bronzeo, il Brigadier Henry Reeves: nato a Brooklin, combattè prima nella Guerra Civile americana, passando poi alla causa dell’indipendenza cubana. Prima del termine di questo percorso, incontriamo una torre di avvistamento, il Torreón de San Lázaro. Il termine orientale del Malecón corrisponde al Canal de Entrada, dove l’oceano si addentra ancora una volta nella città, formando la Bahía de Habana, vasta come un lago urbano e protetta all’entrata da tre fortificazioni: i castelli di San Salvador de la Punta, dei Tres Reyes del Morro, di San Carlos de la Cabaña.

Addentrandosi a questo punto nella parte più antica della città si trovano una quantità notevoli di edifici monumentali, dal Museo delle Belle Arti, alla Piazza della Cattedrale. Tra le emergenze architettoniche e i parchi, tra il Museo della Rivoluzione e quello dedicato al Rum, si possono scorgere ancora due piccoli gioielli: la sede locale della galleria italiana Continua (una delle più influenti per il mondo dell’arte contemporanea) ed il Centro Wilfredo Lam, museo di arti figurative, intitolato ad uno dei protagonisti delle avanguardie europee, amico di Picasso, nato a Cuba ma con origini africane e cinesi. Infine, non si può assolutamente mancare una visita a una celeberrima bottega, la Bodeguita del Medio – dove, tra una visita di Hemingway e una bevuta di Neruda, venne ideato il Mojito.

L’Avana è sempre stata aperta ai contatti culturali con il resto del mondo, fino a creare una cultura totalmente sincretica, meticcia in ogni aspetto della vita quotidiana. Questa caratteristica eccentrica deve molto alla sua posizione strategica, punto nevralgico di incontri e scambi culturali tra nord e sud America, tra Europa e nuovo mondo, facendola divenire una città cosmopolita. E, se da un lato in essa sono presenti le costanti della cultura caraibica: la musica, la rumba, la santería, il crogiuolo di razze, tuttavia è proprio la sua dimensione cosmopolita a distinguerla dalle altre città dell’arcipelago dei Caraibi, come Santo Domingo, Haiti o Kingston in Giamaica. Ma, ad ogni modo, «come negare la condizione di città caraibica – si chiede Jorge Angel Perez – se la distanza con le province dell’Avana è talmente corta che bastano pochi chilometri per essere nel mare dei Carabi?». Anche se egli non rinuncia a «Estar en La Habana definitivamente!».

Nel film di Fernando Perez, Suite Habana, del 2003, vediamo una città profonda attraverso storie quotidiane, senza nessun riferimento ai personaggi del focolare più corrivo su Cuba. Non ci sono jineteras, bici-tax, balseros, pingueros, anche se è facile immaginare la loro presenza. Nel film si vedono strade strette o lunghe, abitate da personaggi singolari, aprirsi su quartieri che sono piccole città nella grande città, i cui nomi si sentono come cicatrici della fantasia: Vedado, Centro Habana, Habana Vieja

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