Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Grandezza dei Severi

Una sontuosa mostra che si snoda tra il Colosseo e una serie di tappe nel Foro Romano rende omaggio all’ultima (e poco conosciuta, se non fosse per Settimio Severo) stirpe di regnanti dell’impero romano. Di origine africana, risollevarono l’Urbs impoverita dalle insensatezze di Commodo

I Severi furono l’ultima grande stirpe dell’impero romano. Eppure i loro nomi sono sfocati nella conoscenza più diffusa, se si eccettua Caracalla, identificato sbrigativamente per le Terme grandiose, peraltro sfondo delle stagioni estive del Teatro dell’Opera. Va un po’ meglio a Settimio Severo, l’iniziatore della dinastia, per quell’arco a tre fornici che s’acquatta nel Foro Romano sotto il Campidoglio e in sostanza il balconcino dal quale tutti i sindaci si affacciano quando ricevono illustri ospiti. Ma Geta, chi era costui? E Marco Aurelio Macrino? Ed Eliogabalo, e Severo Alessandro? Accompagnarono l’Urbs dal 193 al 235 dopo Cristo, risollevarono una Roma impoverita, peraltro uscita dalle insensatezze di Commodo. Ebbero una visione ecumenica saldando Mediterraneo occidentale e orientale. Furono tolleranti verso ogni culto (nella Gerusalemme distrutta da Tito, Settimio Severo fondò una sinagoga, la cui iscrizione è conservata nell’ufficio di Netanyahu); accorti a rimpinguare le casse dello Stato grazie a una riforma monetaria che lasciando inalterato il valore nominale dei soldi ne diminuiva la percentuale di argento, traendo dunque linfa dalla svalutazione; realizzatori del sogno di Augusto, quello di estendere, con la Costituzione Antoniniana, la cittadinanza romana a tutti i liberi dell’impero, una sconfinata platea dalla quale oltretutto esigere le tasse; impegnati sul fronte del rifornimento alimentare, con la concessione semigratuita di grano e olio ai più poveri nonché ai soldati; instancabili costruttori di opere pubbliche, tra cui il rifacimento del Colosseo e di molti altri monumenti dopo i roghi divampati nel 185-188 e nel 192.

Ora a questi regnanti d’origine africana (Settimio nacque a Leptis Magna, nella odierna Libia, e probabilmente aveva la carnagione più scura di tutti gli altri regnanti, come testimonia un dipinto che lo ritrae con la propria famiglia, la moglie Giulia Domna, nata a Emesa, in Siria, e i figli Caracalla e Geta, che venne ucciso dal fratello e sottoposto alla damnatio memoriae) sono i protagonisti di una sontuosa mostra intitolata Roma Universalis che si snoda tra il Colosseo, con un’antologia di reperti affascinanti, e una serie di tappe nel Foro Romano. Un vero e proprio percorso severiano che si arricchisce con punti appena restaurati e aperti al pubblico tra il Foro Romano e il Palatino e dunque, come nella filosofia della direttrice del Parco Archeologico del Colosseo Alfonsina Russo, restituiti alla fruizione in occasione della rassegna ma definitivamente praticabili dai cittadini e dai turisti.

Si parte dal Vicus ad Carinas che collegava la Via Sacra tra il Tempio di Romolo e la Basilica di Massenzio al popoloso Esquilino. Una via che ora si presenta corta e stretta, ma che racconta molto, a cominciare dal verde che la contorna, alti cespugli e qualche albero, memore dell’amore degli antichi per la vegetazione. Nonostante la città crescesse negli anni, restò percorribile: anche quando si eresse la Basilica di Massenzio, il vicus fu inglobato in una galleria chiamata nel Rinascimento del Latrone, per i ceffi poco raccomandabili che la percorrevano. Il percorso odierno, praticabile con una passerella anche dai disabili, porta a un “affaccio” entusiasmante: i resti, visibili dall’alto, del Tempio della Pace, costruito da Vespasiano dopo la rivolta giudaica. Settimio Severo ci mise del suo nei rifacimenti dopo l’incendio del 192. L’aula di culto fu trasformata in spazio per i commerci. Il pavimento mostra un disegno a grandi dischi di marmi pregiati, che alternano i colori del porfido rosso, del pavonazzetto, del granito grigio, del verde, del giallo. E sull’alta parete in tufo del tempio, che adesso prolunga la facciata della basilica dei Ss. Cosma e Damiano in uno di quegli scorci che solo Roma può offrire, l’imperatore africano fissò (si vedono ancora i fori delle grappe) la Forma Urbis Romae, vale a dire la pianta della città in 150 lastre rettangolari, come risultante dal Catasto che lì ebbe la sua sede.

L’itinerario, dopo l’attenzione alla Basilica di Massenzio e all’Arco di Settimio Severo, s’impenna nella novità dell’apertura delle Terme di Elagabalo, che si dicono volute come “lavacrum publicum” da questo imperatore regnante tra il 218 e il 222. Un edificio in laterizio si appoggiava al muraglione della terrazza di Vigna Barberini, dove già s’inerpica il Palatino. Ma ora vediamo, frutto di individuazione di quel che c’era, una sorta di splendido belvedere sullo sfondo del Colosseo, cinto dai cipressi della Via Sacra. Al centro vasche rettangolari memori delle Terme riflettono il cielo e dischi marmorei sono l’“indizio” dei quindici pilastri che animavano il cortile. Sul lato opposto, resta una mensa in muratura a forma di C, con una fontana al centro che doveva dare l’impressione agli ospiti della “coenatio” di trovarsi al centro di un lago. Qui quattro anni fa Clementina Panella – che per La Sapienza di Roma scavava da oltre un decennio toccando strati del sottosuolo risalenti fino all’età del ferro – fece la scoperta, sensazionale, di materiale marmoreo mischiato alla malta. Erano quattro oggetti, tra cui un ritratto di Settimio Severo, riutilizzati nell’edilizia posteriore. Grazie a un successivo tassello di ricognizione di tre metri quadrati vennero portati alla luce 33 pezzi, tra cui sei ritratti, 13 busti, due erme delle quali una a tre teste mai vista altrove. Tutti reperti esposti adesso per la prima volta, in occasione della mostra, nel Tempio di Romolo, al centro del Foro.

La passeggiata prosegue salendo sul Palatino, fino a giungere alle poderose Arcate Severiane, affacciate sul Circo Massimo. Sono diciassette, estese su una superficie di 3.500 metri quadrati, alte 23. Un complesso dotato di terrazze e “viae tecte”, strade coperte, non ancora aperte regolarmente al pubblico. Per ora si può costeggiarle fino a giungere allo Stadio Palatino, costruito al tempo di Domiziano e, ancora una volta, ricostruito dai Severi dopo l’incendio del 192 aggiungendo portici su due/tre ordini, un ballatoio centrale, sale con pavimento a mosaico e raffinate pitture. Insomma, qui i Severi crearono un luogo di svago attorno a un giardino. Ne dà conto (ed è visitabile) la cosiddetta Sala dei Capitelli, che si affaccia sullo stadio come una “wunderkammer” dal prezioso soffitto a cassettoni. Un piccolo antiquarium insomma, creato dopo gli scavi promossi dal 1865 al 1868 da papa Pio IX. Qui sono appunto raccolti capitelli e frammenti di trabeazione perfettamente conservati e risalenti ai Severi. «Raffinati, copiano lo stile dell’età Flavia – nota Alessandro D’Alessio, uno dei curatori della mostra. Un modo, questo di rifarsi artisticamente alle dinastie precedenti, con il quale i Severi volevano ottenere ulteriore legittimazione». Del resto l’imperatore guerriero venuto dall’Africa vantava l’investitura dal princeps filosofo Marco Aurelio.

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