Nicola Fano
Al Piccolo Eliseo di Roma

Lezione di odio (secondo Simenon)

Alvia Reale e Elia Schilton sono gli straordinari interpreti di una bella riduzione (di Fabio Bussotti) de "Il gatto" di Simenon. Una storia di ordinaria disperazione che gli attori mascherano volta a volta da odio e da amore

Il gatto è uno dei migliori romanzi di Simenon. Fulminante, cattivo, geniale: portarlo a teatro è una bella sfida. Ma Alvia Reale, Elia Schilton, il regista Roberto Valerio e il dramaturg Fabio Bussotti l’hanno vinta. Cercherò qui di spiegare perché.

Intanto, partiamo dalla trama: un capomastro in pensione e una borghesuccia gelida e benestante decidono di sposarsi entrambi in seconde nozze. Rappresentano due mondi che più distanti non potrebbero essere, sicché non appare chiara, lì per lì, la ragioni che li abbia persuasi a questa scelta. Forse il fatto è che entrambi, non avendo a disposizione più amore, dentro di sé, hanno bisogno di coltivare l’odio. Nella fattispecie: odio reciproco. Ma un odio clamoroso, epico, prossimo al sublime. Lei uccide il gatto di lui, lui uccide il pappagallo di lei, dopo di che, convivendo a forza nella stessa casa, comunicano solo tramite bigliettini che si lanciano con sprezzo l’un l’altro. Fanno vite separate e parallele: mangiano a ritmi alterni e mettono le relative dispense sotto chiave per evitare di essere avvelenati dall’altro (qualcuno ricorda La scala di ferro, sempre di Simenon? Le mogli avvelenatrici dovevano essere un’ossessione di questo grandissimo scrittore). Poi, lei cerca di farlo passare per pazzo, sicché lui scappa di casa e va a vivere da una specie di amante… ma niente: sono condannati a convivere, vita natural durante. Il loro odio è la loro folle forma d’amore. O il prodotto della loro comune impossibilità di vivere.

Fabio Bussotti ha preso in mano questa materia e l’ha scomposta: parte in forma dialogica (Simenon, nei suoi romanzi, era un maestro nel confezionare dialoghi, pensate agli interrogatori di Maigret), parte in terza persona. Nel senso che ogni personaggio dice le proprie parole, i propri pensieri e i paesaggi che lo riguardano. Anche i paesaggi contano: siamo a Parigi, in un vicolo con vecchie case che, per metà, stanno per essere abbattute per fare spazio al futuro. In fondo, i due capitolano proprio sotto i colpi della palla di ferro che butterà giù le abitazioni d’epoca.

Dal medesimo romanzo, agli inizi degli anni Settanta, venne tratto un film con Jean Gabin e Simone Signoret: un ménage claustrofobico più di quanto qui la vicenda trasudi, invece, disperazione. Il film, naturalmente anche grazie a due emblematici mostri sacri, era terribilmente francese mentre questo spettacolo è sospeso nel vuoto dei sentimenti di chiunque, senza geografia: a volerla far difficile, ci si sentono echi di Thomas Bernhard e d’un certo suo assoluto metaforico. Ma, diciamolo subito, i due interpreti dello spettacolo, che fino all’11 novembre è in scena al Piccolo Eliseo di Roma, non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi francesi. Prima di tutto, infatti, qui si tratta di una magnifica prova d’attori.

Elia Schilton è sempre lucido: la disperazione del suo personaggio evapora dalla sua furia e si materializza come una tempesta sulle teste degli spettatori. Più che vivere, il suo Émile si lamenta – in continuazione – e rivolge sugli altri l’insicurezza che gli procura la futilità della sua vita. Alvia Reale ha un compito tecnicamente più difficile. Non solo perché il suo personaggio, Marguerite – la borghese affettata, terrorizzata dai suoi sentimenti che idolatra l’ex marito musicista e il suo pappagallo – è pieno di sfumature e contraddizioni, ma anche perché è chiamata in scena a interpretare pure la bizzarra amante di Émile e la gioconda ex moglie di lui. Tre coloriture nelle quali Alvia Reale si destreggia da grandissima attrice, qual è da tanto tempo, ormai. I suoi guizzi d’umore, i suoi repentini cambi di tono e profondità sono tra le cose per cui questo spettacolo è di sicuro da non perdere. Godibile anche Silvia Maino che dà corpo a un piccolo ruolo di contorno.

Insomma, si sta parlando di teatro allo stato puro, pensato e fatto per il godimento del pubblico: per comunicargli emozioni e idee. Ho assistito a una normale replica dello spettacolo, non alla prima: la sala era piena; piena di spettatori (quelli seduti accanto a me, almeno) che sembrano dotati di gusto e d’intelligenza critica. Una bella notizia per il teatro e per questo nostro disgraziato paese.

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