Adriano Napoli
Riflessioni su “Barnabo delle montagne”

L’attesa del vivere e del morire

Nel romanzo d’esordio di Dino Buzzati è condensato il nucleo dell’immaginario che ispirerà l'opera successiva dello scrittore: lo sconfinato amore per la montagna, il sentimento del tempo, il legame magico tra uomo e natura, la solitudine della modernità. E l'ombra inscalfibile della morte...

Barnabo, il protagonista del romanzo d’esordio di Dino Buzzati, Barnabo delle montagne (Oscar Mondadori, ristampa 2017) è un giovane guardaboschi. Con il fucile sempre a tracolla, ma senza sparare un colpo, percorre quotidianamente i sentieri della valle delle Grave per difendere il territorio dai banditi. Nelle ore di svago, mentre i compagni fanno festa e cercano le ragazze, lui guarda assorto le cime degli alberi oltre i muri delle case. Perché il suo modo di festeggiare la vita è la contemplazione: fare del proprio sguardo un Tempio, in cui la Realtà sovrastante assume la forma dell’attesa e diventa sacra. Un giorno il capo delle guardie viene ucciso. In seguito i banditi assaltano la polveriera in montagna e rubano le munizioni ammassate in quel rifugio assurdamente celato tra le rocce. Barnabo, che tornava da una inutile caccia agli assassini, assiste da lontano all’assalto senza intervenire. Ha avuto paura e verrà cacciato dal Corpo. Dovrà rassegnarsi a partire e cercarsi un nuovo lavoro in pianura, nella fattoria di un cugino, vegliato dalla fedele cornacchia a cui aveva salvato la vita.

Passano gli anni. Ma Barnabo è rimasto lo stesso, e pur confinato tra i campi, continua a guardare da lontano le sue montagne. Un giorno la sua cornacchia, presentendo la fine, stacca la sua ombra da Barnabo, si libra nel cielo, e con un grido straziato, umano come la paura, sembra indicargli la strada del ritorno e il punto originario dove la Morte combacia con la vita e la completa. Poco dopo anche Barnabo riparte, e torna nella val di Grave non più come guardiaboschi ma semplice custode solitario di una casa abbandonata. I vecchi compagni gli lasciano credere beffardamente che, nell’anniversario dell’assalto, i banditi torneranno alla Polveriera e tutti i guardiaboschi si riuniranno per fare vendetta. Ma Barnabo ancora una volta resta solo nell’attesa, e da solo si apposta l’indomani tra le rupi con il fucile puntato. Quando finalmente arrivano, egli non vede i nemici, ma la creaturalità inerme di un vecchio lacero e dei suoi compagni al cospetto della Polveriera ormai dismessa. Potrebbe uccidere e vendicarsi, ma ogni movente è ormai insensato. Poco dopo lo rivediamo già per il sentiero, con il fucile carico a tracolla che ancora una volta non ha sparato, riprendere la strada di casa. È un uomo riconciliato, che può ricominciare di nuovo.

In questo misconosciuto romanzo d’esordio, Buzzati (nella foto sopra) condensa il nucleo atomico del suo immaginario che ispirerà l’opera successiva: l’amore per la montagna, sconfinato come un’infanzia; il sentimento e la contemplazione del tempo che passa; il legame pre-moderno, magico e simbiotico, tra uomo e natura contrapposto alla solitudine venata di assurdo della modernità; l’attesa del vivere e l’ombra inscalfibile della morte. E cionondimeno il romanzo brilla come una stella solitaria, di luce propria. Seguendo con lo sguardo il volo delle cornacchie che attraversano quel varco di cielo e di crode a cui è tornato e che è tutto il suo mondo, Barnabo si domanda: «Chissà se la cornacchia non sia morta e non si trovi ancora da queste parti». Dunque il luogo dove dobbiamo tornare, e restare, è la morte? È in quel varco, nell’attesa, che la coscienza resta ferma e la vita si avvera? Un paese mai finito, dove gli uccelli e gli uomini soffrono e cantano, e le cose succedono.

L’immagine vicino al titolo riproduce un particolare di “Ritorno dal bosco” di Giovanni Segantini, 1890

 

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