Luca Zipoli
A proposito di “Coppie minime”

Deserto (per modo di dire)

Un viaggio singolare tra un amore difficile, deserti veri e figurati, giochi linguistici: è la voce di Giulia Martini. Classe 1993, pistoiese di origine, fiorentina per formazione universitaria, “Coppie minime” è la sua seconda raccolta di poesie

«La mia carta canta quello che tu/chiami deserto per modo di dire»: suonano come una dichiarazione di intenti i due versi che chiudono una delle poesie della raccolta Coppie minime (Internopoesia, 2018) firmata da Giulia Martini. Classe 1993, pistoiese di origine, fiorentina per formazione universitaria, aveva esordito con la raccolta Manuale d’Istruzioni (Il Filo, 2015). La giovane autrice afferma programmaticamente che la sua carta canta il vuoto del deserto, ma come può la parola esprimere il vuoto? Come può la poesia restituire l’aridità di senso dal quale promana? La risposta è racchiusa nei versi stessi: «per modo di dire», cioè attraverso la parola stessa.

Uno sguardo rapido ai testi e non ci sono dubbi: il procedimento attraverso cui la parola riesce a restituisce l’assenza di senso è il libero accostamento di parole per somiglianze foniche e grafiche. E, d’altra parte, è il titolo stesso del volume che avverte il lettore dell’ispirazione linguistica alla base. Nella Prefazione, Francesco Vasarri ricorda che in Linguistica l’espressione “coppie minime” indica quelle coppie di parole che, pur differenziandosi per un solo fonema, danno luogo in realtà a due significati completamente opposti. Sole-Sale, Neve-Nave, Cane-Canne per fare degli esempi. Questo concetto, che potrebbe sembrare una nozione linguistica piuttosto inerte, racchiude per l’autrice un significato più profondo, che incarna la sua concezione del mondo e della poesia. Il fenomeno linguistico delle coppie minime testimonia la convenzionalità del linguaggio e dei modi con cui chiamiamo la realtà, di conseguenza l’arbitrarietà della realtà stessa che, proprio se vista attraverso il filtro della parola, appare molto più complessa e meno schematicamente ordinata di quanto appare. È in questo senso che le parole diventano specchio fedele della realtà e si incaricano di esprimere il deserto, il vuoto di senso che è già nelle cose e che il linguaggio emblematicamente incarna.

Raggruppate in quattro sezioni (Deserto per modo di dire, Coppie minime, Voci correlate, Ma se la rivedessi, che direi?), le liriche ospitano ognuna altrettanti giochi linguistici e sperimentazioni fonetiche che costituiscono la cifra espressiva del libro. I versi sono un susseguirsi di bisticci paronomastici («Io rime, tu rimedi»; «basilico, basico, basito»; «molte più rime e meno rimasugli»; «congiuntivo…congiuntivite»), accoppiamenti omoteleutici («diventi l’astro del mio disastro»; «dei Ming…Potessi almeno rivederti in streaming»; «il tuo nome nel mio cognome»), giochi fonici («ottanta. Ho tanta»; «Ite missa est. Di te mi si è»; «Tenné./Te ne sarei»; «l’ottone…non t’ottiene»; «l’onomastico…nome che mastico»; «Un foro nel Fosforo/Un neo nel Neon»), anagrammi («Todi – do it»), e altre creazioni funamboliche («torrefarmi ti faccio torre/per le tortore»; «conoscere i fati;/ma fatiscente»; «ditirambi./Con ambo le mani tiri»). Questo stile, tuttavia, non deve essere confuso con un semplice paro-liberismo in stile surrealista o con l’atteggiamento ludico caro alla Neo-avanguardia, perché con queste arditezze i testi ambiscono non solo a spiazzare ma anche a mostrare gli accostamenti inediti che sono già nelle cose e a far interrogare il lettore sulla stabilità solo apparente del mondo e del linguaggio che lo esprime.

I virtuosismi tecnici che caratterizzano la scrittura di Giulia Martini hanno anche il compito di sabotare dall’interno le forme metriche classiciste (sonetti ed endecasillabi) a cui pure la maggior parte dei testi si àncorano. L’operazione di aggiornamento della tradizione a una sensibilità decisamente contemporanea è evidente anche nella sistematica riscrittura di autori del passato, che è il secondo tratto inconfondibile della penna dell’autrice. Quasi ogni verso di Coppie minime riecheggia quello di un autore della nostra letteratura, e così il dantesco «I’ mi son un che, quando/Amor mi spira, noto» del Purgatorio si trasforma in «Io mi son uno/che se ha fame mangia»; o ancora «Guido, io vorrei che tu e Lapo e io/ e Kennedy e Roland e Winston C.». Dal Petrarca del Canzoniere sono ispirati «Erano i capei d’oro a Marta sparsi» e «Non era l’andar suo cosa mortale»; al Pascoli del X agosto si rifà il verso «perché tanto di stelle arde e cade», mentre su un celebre testo di Montale si modella «alla carrucola nel pozzo che non ha/attinto il volto». Ma lo spettro dei testi saccheggiati dall’autrice contempla anche le Sacre Scritture e le formule fisse della liturgia cattolica («Beati gli invitati alla cena in via Dernier»; «quasi fosse una voce buona e giusta… È veramente cosa buona e giusta») e testi noti più ai laureati in Lettere – come l’autrice – che al grande pubblico (Assai cretti celare di Stefano Protonotaro, Se pareba boves, l’Appendix Probi). Il più delle volte antifrastiche quando non apertamente parodiche, le diffuse citazioni non vogliono essere un semplice gesto avanguardista di sberleffo alla tradizione, quanto piuttosto espressione della volontà di mostrare lo iato ormai incolmabile tra le idee forti del passato e il deserto della contemporaneità.

Al di là della maestria linguistica, però, ad affascinare il lettore di Coppie minime concorre il tormentato rapporto sentimentale con Marta, la grande protagonista femminile del libro. Tra sentimenti eterni come l’amore non corrisposto e nevrosi tutte contemporanee come le relazioni in chat («ti vigilo l’ultimo accesso»; «So sempre dove sei/quando sei online»; «che brivido la scritta sta scrivendo…»), si dipana l’itinerario di un sentimento prima totalizzante, poi incapace di scendere a patti con l’idea dell’abbandono. Per fuoriuscire dal deserto, in questo caso sentimentale, un aiuto arriva proprio dalle infinite potenzialità del linguaggio, un deserto per modo di dire.

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