Andrea Carraro
Improvvisi

Il diavolo e il diverso

“L’anima e il castigo” di Michele Caccamo ricama sulla storia medioevale per raccontare un disagio di ogni tempi: quello di chi viene escluso sulla base di un pregiudizio sociale

Caro Michele Caccamo, due parole sul tuo bel romanzo L’anima e il castigo (Castelvecchi), che ho letto da un po’, ma che mi è ancora chiaro in testa come se l’avessi appena concluso. Anzitutto una riflessione sul genere. Quando scrivi un “romanzo storico”, le possibilità di errore aumentano esponenzialmente, e più ti spingi indietro nel passato, più problemi ti trovi ad affrontare in termini di linguaggio, arredi descritti, architetture, abbigliamento, strumenti in uso, filosofia, cognizioni mediche, scientifiche ecc. Ecco perché provo una grande ammirazione verso quegli scrittori che dimostrano di saperlo fare.

L’anima e il castigo racconta poeticamente (si sente che prima di essere un narratore, tu sei un poeta, cioè hai dimestichezza con il linguaggio poetico), la vita di un uomo nato con una grave malformazione fisica – il piede caprino – che si credeva all’epoca portata dal Demonio, e per questo ripudiato dalla (nobile) famiglia di origine, e offerto “in dono a Dio”, cioè affidato ai monaci di un convento. Il romanzo è anzitutto una riflessione morale sulla “diversità” – almeno così l’ho letto – che dal Medioevo profondo rimbalza fino a noi, alla nostra intolleranza, ai nostri pregiudizi, ai nostri razzismi senza grande sforzo di immaginazione. Non c’è un solo momento durante la lettura del tuo libro, ambientato attorno all’anno 1000, lo ricordo, in un monastero benedettino, ispirato alla vita di Heram von Richenau, detto “lo Storpio” – non c’è un solo momento che leggendo ti viene fatto di domandarti: “Ma questo sarà vero… uhm fammi un po’ controllare!…”. Grazie al rigore nei riferimenti (la forma di un capitello, il nome di un certo medicamento, un dettaglio di vita monastica ecc.), non c’è un solo momento, dicevo, che non sei riuscito a suggerire l’idea di un tempo tanto remoto, senza peraltro caricare la rappresentazione da notizie didascaliche e erudite.

Insomma, la “sospensione dell’incredulità” si realizza e volentieri ci si abbandona alla narrazione. La scrittura riccamente metaforica, aforistica, poetica, appare particolarmente adatta a esprimere sentimenti/emozioni religiosi, ma è dotata quando serve anche di ritmo narrativo, perfino di suspense, per esempio quando il protagonista viene rapito da malvagi trafficanti di poveri “infelici” usati come mendicanti o peggio, passando per il fortunoso, rocambolesco ritorno al monastero, fino al definitivo rifiuto dell’Abate a “ordinarlo” al Presbiteriato, quindi a considerarlo “degno” al ministero sacerdotale a causa della sua malformazione.

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