Adriano Napoli
Nuove poesie di Elio Pecora

Rifrazioni dell’Io

Essere contemporaneamente lo specchio e lo sguardo che lo abita. E in questa precaria identità osservare il tempo in una continua metamorfosi, in cui ciò che continuiamo a vedere è assente. Suggestioni dall’ultima raccolta, antica e attuale, del poeta campano

In una nota a conclusione del suo ultimo libro Elio Pecora, Rifrazioni (Lo Specchio, Mondadori), confida al lettore di aver composto gran parte delle poesie tornando nel suo paese natio, a Sant’Arsenio. Un ritorno al luogo d’origine, dunque; tanto più suggestivo se l’esito è un libro che pare situarsi con fermezza in un punto originario, della vita, della realtà, della poesia. Originaria è la voce poetica, innanzitutto; densa e profonda dietro la parvenza di una dizione conversevole; levigata come un oggetto antico amato e custodito con una lunga fedeltà; esposta ai graffi del tempo, eppure intatta come una conchiglia riemersa dalla sabbia dei millenni. Si ha l’impressione di ascoltarla, vitale e presaga intorno a noi, quella voce, con lo stesso nitore di cieli assoluti, di vento e di polvere, e di frutta matura, come in un canto di Saffo e di Alcmane. Lo stupore di fronte alla sfuggente, ma solida immanità del cosmo dei lirici greci, ricreati tuttavia – non tradotti – nel sangue e alle radici, da chi ha avuto la sorte di ascoltarti e riviverli forse in un’altra voce, nella grazia incrinata di un altro poeta (non penso a Quasimodo, ma a Sandro Penna).

Ascoltiamo: «L’ora è ferma e lucente, un pigolio/si spande fra i castagni e gli ulivi; /al desiderio basta il desiderio/ di una felicità solo sfiorata». Gli ulivi e i castagni (del Cilento, piuttosto che dell’Egeo nordorientale, non importa), incuranti di un mondo che si disfa, si elevano, sacri in questi versi, nel cielo impassibile; e sono voci oranti e trepide d’incanto, che portano al centro della scena il silenzio, contraltare del frastuono frammentato e solipsistico che ci circonda. Pecora infatti scrive per evocare il silenzio. Un silenzio sulla cui cima ombrosa convivono implacate l’attesa e l’inattendibile, la cruda maestà del tempo, la bellezza indicibile del creato; e la morte, che vi si nasconde infida e seducente, quasi ad avverarne il senso e la giustezza agli occhi di chi guarda, modulandone la vertigine del nulla in una parola necessaria, capace di indicare un’altra strada che non conduca verso l’abisso.

Quanti circoli virtuosi in questo libro strutturato e imbastito come una partitura musicale, ricco di toni e di timbri. Tanti quanti ve ne sono nella vita di un uomo disposto a confrontarsi con i numeri e i segni, e i colori della natura, e quelli incalcolabili del sentimento e della ragione. Poesia è osservare il tempo nell’assenza di ciò che continuiamo a vedere: nella memoria, nel nome che ci chiama da una distanza, nelle ore perdute, colme di redenzione. Guardare il tempo è in fondo una metamorfosi che percorre questi versi screziati di colori e umori, persuadendoci con sensazioni tattili (quasi una fisica della percezione, antidoto alle astrazioni incolori dell’impoetico modernariato attuale; e si osservi quante volte ricorre l’immagine del sangue, anche nei sapienti esergo che indirizzano l’ascolto: «L’arte si nutre del sangue dell’artista», Edvard Munch; e ancora: «Il sangue che sta attorno al cuore è il pensiero degli uomini», Empedocle). (Nella foto Elio Pecora). «Un altro tempo corre in questo tempo/ che contiamo a minuti;/ è l’ansa dove il sogno della mente/ non conosce durata/ la parola che tenta se stessa/ esatta, svelata». E la poesia altro non è che questo incanto, tenero e malinconico, di “tentare se stessa” fino a sentire il tempo, da un angolo silente e ombroso («quel che chiamiamo Sublime/ sta nell’ombra»), da un’ansa della coscienza esposta a esso, e percepirne la liquidità (ce lo ha ricordato in un bellissimo saggio Pietro Citati). Si tratta di entrare ancora una volta nel pomerio di un giardino, come quello che ci accoglie fin dalla soglia, dal primo verso di questo libro in sé conchiuso, leopardianamente segnato da fremiti e ferite, non dissimile dalla coscienza umana; da cui guardare immobili (con Pitagora e con Proust; con Ovidio e Bergson) la forma esatta ed effimera delle cose rifrangersi nell’attimo del loro trascorrere, che è forse la forma – l’unica possibile – dell’Eterno.

Anche “Io” – Pecora ne è ben consapevole – è “altrove”, o un “altro”; e l’io loquente di questo libro così antico, ma al contempo coinvolto e compromesso nel dramma del presente (eterno?), è in fondo un io-maschera che necessita di specchiarsi, come un Narciso alla fonte, in una terza persona; di estraniarsi, per potersi svelare e denudare nel proprio desiderio e in ogni paura, soggetto e oggetto di una rifrazione, come del resto avviene in ogni metamorfosi. Come se “Io” fosse contemporaneamente lo specchio e lo sguardo che lo abita, e contemplandolo, lo accoglie nel mistero di sé, in cui consiste precaria la concordia discors della nostra identità, a noi più di ogni altra cosa sfuggente ed estranea. «… Dice che il vuoto, il niente, il buio/ quelli sui quali vanno indagando nello sprofondo/ e da minaccia sono divenuti un’immensa promessa/ sa di portarseli dentro, cosmi e particole,/ e di esserne traversato e/ mentre li abita e li traversa».

Nell’immagine: Salvator Dalì, “La notte italiana”, particolare

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