Valentina Di Cesare
Incontro con il narratore Alessandro Moscè

L’attualità di Moscè

«Lo scrittore, nel millennio che segue al postmodernismo, non è un intellettuale. Prevale un’immobilità sempre più autoreferenziale, un egotismo schiacciante»: Alessandro Moscé parla di narrativa e impegno

Alessandro Moscè è scrittore (è autore, tra gli altri, della raccolta poetica Hotel della notte per Aragno, del romanzo L’età bianca per Avagliano, del saggio critico Galleria del millennio per Raffaelli), giornalista culturale e si occupa di critica letteraria su vari giornali, tra cui il quotidiano “Il Foglio”. Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Ho discusso con lui del ruolo dello scrittore nella società contemporanea, dei nuovi ambiti espressivi e comunicativi con i quali si misura di continuo, della scelta (razionale?) che l’autore compie (o che talvolta non si pone affatto) tra il movente civile e quello personale e anche della possibilità o dell’utilità di interpretare l’atto scrittorio essenzialmente come una rivelazione.

Alessandro Moscè, lei pensa che lo scrittore debba avere un ruolo sociale, se non civile? Esistono ancora figure autorevoli, commentatori del presente, autori che si espongano, che dicano la loro?

Lo scrittore, nel millennio che segue al postmodernismo, non è un intellettuale. Prevale un’immobilità sempre più autoreferenziale, un egotismo schiacciante, una promozione del proprio operato che fa del narratore e del poeta un artigiano, un commerciante della sua libertà indifferente. L’esilio dell’intellettuale ha a che vedere con il diniego ad intervenire sul presente, sull’attualità per il capire come si muove la società eterogenea, come cambia e che cosa chiede. Dietro l’immagine dello scrittore c’è un baratro di interessi. Sono cresciuto anagraficamente nell’età del consumismo, dell’opulenza. Lo scrittore di riferimento, per la generazione nata negli anni Settanta e Ottanta, era Pier Vittorio Tondelli, il quale riteneva lo stesso giornalismo uno strumento critico e credeva nella contaminazione tra le varie forme comunicative. Leggeva i fenomeni specie giovanili, il fermento di un divenire, di un movimento di massa che componeva gradualmente i passaggi generazionali, la nuova civiltà. Oggi nessuno ha raccolto quell’eredità. Si nota una netta discrepanza tra l’operato dello scrittore e il suo ruolo nella società in cui vive. L’intellettuale rimane una figura del tutto ininfluente nella sua marginalità, per cui è il cantautore, il cabarettista, l’editorialista ad aver preso il posto dell’intellettuale che un tempo dibatteva sul presente. Penso a Moravia, Pasolini, Siciliano, Fortini.

Che cosa dovrebbe dire secondo lei, uno scrittore, stando all’attualità?

Nessuno spende parole sulle elezioni del 4 marzo, sulla scuola, sulla sanità, sulla legge Fornero, sulle politiche geografiche che oppongono l’Occidente liberista e omologato ad un Oriente confuso dove le guerre di religione hanno una portata internazionale. Nessun narratore o poeta ha illustrato il potere della mente di uno scienziato come Stephen Hawkins, da poco deceduto, che viaggiava tra i buchi neri. Nessuno che recensisca una mostra, un film, uno spettacolo teatrale. La piattaforma virtuale, l’online, è uno svincolo al quale si può accedere immediatamente, per cui non è vero che gli spazi, per l’uomo di cultura, si siano ridotti. Sono moltiplicati e ne ben utilizzati permettono di far sentire la propria voce. Se tutto è ridotto ad una semplicità liquida, è anche perché l’intellettuale non vuole più esserci con determinazione. Una volta seminava dubbi, sosteneva Norberto Bobbio, specialmente nei luoghi della cultura: la scuola e l’università. Oggi, nella precarietà della formazione e dell’occupazione, nell’epoca della mediatizzazione, si nasconde. Manca la sua presenza che soppesi la coscienza delle relazioni, l’essenza della comunità. L’assenza dello scrittore è certamente voluta, se non parla in nome di un Paese indifeso, maltrattato, uniformato.

C’è ancora qualcuno che non ha il timore di tirarsi indietro, o che non si dimostra così indifferente? Lei come interviene nell’attualità?

Alessandro Leogrande, che è venuto a mancare lo scorso anno, amava fare indagini, concepiva il ruolo assegnato, come mi piace definirlo, a partire dal temperamento. Leogrande ha analizzato i flussi migratori, le mafie, lo sfruttamento dei braccianti stranieri, il contrabbando, i movimenti di protesta. Si è esposto confezionando dei reportage narrativi che non tralasciavano la cronaca. Penso a Roberto Saviano e potrei menzionare il marchigiano Angelo Ferracuti.

Nel mio piccolo, di recente, mi sono occupato di Aldo Moro, il quale è stato un intellettuale complesso, non solo un docente universitario di Procedura Penale e un esponente di punta della Democrazia Cristiana. Al Congresso nazionale del suo partito, il 29 giugno 1969, Moro si rivolse ai giovani e ai lavoratori, i primi a pretendere un ordine nuovo, una vita sociale che non soffocasse, ma offrisse liberi spazi, una prospettiva non conservatrice o meramente stabilizzatrice, la lievitazione di valori umani. Affermò che la società non può essere creata senza l’attiva presenza, in una posizione veramente influente, di coloro per i quali il passato è passato e che sono completamente aperti verso l’avvenire. La richiesta d’innovazione comporta naturalmente la richiesta di partecipazione. Ho scritto un lungo reportage sulla strage di via Fani, sul covo di via Gradoli, sulla prigione del popolo di via Montalcini e sul ritrovamento del cadavere in via Caetani. Spero di poterlo pubblicare da qualche parte. Ho recuperato centinaia di documenti, ho parlato a lungo con la figlia di Moro, Maria Fida, con l’avvocato e magistrato Fernando Imposimato. Ho tracciato un filo rosso che lega lo Stato italiano dalla strategia della tensione fino alla morte di Moro, passando per l’uccisione di Mauro De Mauro e di Pier Paolo Pasolini. Ho captato l’esistenza del secondo Stato che nasce con i servizi segreti, la Loggia P2, Gladio e la malavita organizzata. La democrazia è stata calpestata da un volere subdolo di pochi mandanti che ne hanno deciso le sorti e imposto una disciplina, un controllo invisibile che è costato migliaia di vite. Con l’abbattimento della cortina di ferro non sono caduti i segreti di Stato e ancora vige un silenzio assoluto sulle connessioni nodali tra l’Italia, il resto dei paesi occidentali e gli Stati Uniti.

Ci parli della sua attività letteraria. Quali sono i temi che le stanno più a cuore sia nella prosa che nella poesia?

Sono un poeta e un narratore, ma non è sufficiente scrivere libri in proprio. Cerco di allargare lo sguardo, di trarre linfa vitale da ciò che vedo e intuisco. Non sono affatto uno scrittore civile, ma non saprei prescindere dalla cronaca, che compare nei miei romanzi e nei miei articoli di giornale dove indago. Collaboro con la rivista “Pangea” ed ho un sito dove mi occupo di aspetti che non riguardano solo il mondo letterario, dico la mia, tanto è vero che c’è una frase contenuta nell’home page del sito che mi identifica. “La letteratura è amore o combattimento o non è niente”.

Il mio romanzo Il talento della malattia, uscito da Avagliano nel 2012, narra la mia guarigione da un terribile sarcoma di Ewing, nel 1983. Sono quindi autobiografico, in un certo senso. La malattia rende metafisici, affermava Emil Cioran, specie quando si va incontro a ciò che sembra irrimediabile, vale a dire la dimensione di finitudine umana, si apre un vasto orizzonte di domande esistenziali sulla dualità vita/morte, che per me ha contato molto di più di quella pasoliniana natura/storia. Non solo. Una malattia altamente mortale come il sarcoma di Ewing che contrassi da bambino, durante questi anni mi ha “permeato” in modo disuguale. Nel frattempo sono diventato un uomo, e ciò che all’inizio innescava il silenzio per un meccanismo difensivo, di disagio colpevole, si è tramutato pian piano nell’urgenza di dire, di raccontare. Non credo di aver scritto una storia personale, perché molti malati mi hanno cercato confidandomi di essersi ritrovati nelle mie parole. In fondo La montagna incantata di Thomas Mann ci dimostra che “l’interesse per la malattia e la morte è l’altra espressione dell’interesse per la vita”. La psicologia moderna è convinta che il malato possa esorcizzare il suo stato psichico mediante la cosiddetta “motivazione antagonista”. Il sogno infantile equivale al diversivo, al divertimento: per questo i bambini avrebbero una più alta percentuale di guarigione dai tumori. La mia motivazione era rappresentata dal mio idolo di allora, un calciatore, come per molti bambini: Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio campione d’Italia nel 1974 e presidente nel 1983, l’anno in cui mi ammalai. Un personaggio bizzoso, in controtendenza, amato quanto odiato dal pubblico sportivo. Volevo conoscerlo e questo mi spingeva ad introiettare lo slogan che gli urlavano, idolatrandolo, i tifosi della Lazio: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Chinaglia: un idolo, un amuleto, un portafortuna, il mio Cristo laico. L’età bianca (Avagliano 2016) è il seguito di Il talento della malattia e compone il dittico narrativo.

Ora sto lavorando alla mia quarta raccolta di poesie, che si intitolerà L’amore aiuta a vivere: un verso tratto da Primizie del deserto di Mario Luzi. La poesia è una dotazione di mistero che ci viene dall’inconscio, quindi da una condizione primordiale e dalla sfera del ricordo, sempre accesa, come fosse una lampada che sorveglia dall’alto il nostro agire.

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