Alberto Fraccacreta
Visto al Teatro Sperimentale di Ancona

Servillo fa scuola

Prosegue la fortunata tournée di Toni Servillo con "Elvira" di Louis Jouvet: quale fatica si cela dietro a un monologo (che al pubblico potrebbe anche sfuggire)? Che cos’è l’attore? Che cosa significa recitare? Una lezione, più che uno spettacolo

La giornata è alterna: a lampi di sole seguono scrosci lievi. Potrebbe apparire Delia, penso, l’amata di Maurice Scève, l’idée. L’auto va, intanto, tra il nascondino di sole e nubi che corrono fuori dai limiti consentiti. La strada si inarca, il mare è impiombato, compaiono le prime navi, le draghe, le perforatrici del porto di Ancona. No, lì Delia non appare. Domenica pomeriggio. Entriamo nel teatro sperimentale.

Ci sono problemi con i posti, evidentemente, perché il lavoro delle maschere cresce. Colpi di tosse a dar ragione di un tempo strano, caratterizzato da segmenti di vento, improvvise calure. Si dà l’annuncio delle prossime rappresentazioni e si prega «i signori spettatori di spegnere i cellulari». Non tutti, tra cui il sottoscritto (questo è un autodafé), obbediscono. Entrano al buio gli attori: squilla un telefonino. Servillo commenta: «Che fa, risponde?». La compagnia torna indietro e rifà daccapo l’entrata. Essendo Elvira (in francese Elvire Jouvet 40) un’opera metateatrale, ad alcuni ― tra cui il sottoscritto ― può sembrare che sia una trovata registica. Gli attori rientrano, poche battute, ancora una suoneria che cicaleccia in sottofondo. Probabilmente un errore di digitazione, scatta il vivavoce: «Pronto?». La persona che parla, dall’altro capo del telefono, non sa di essere appena entrata in teatro, o meglio in una rappresentazione teatrale…

Elvira è la stenografia delle lezioni di Louis Jouvet al Conservatoire national supérieur d’art drammatique e, in particolare, di una scena (il perdono di Elvira e l’esortazione alla conversione nel Dom Juan di Molière) che Claudia, in realtà Paula Dehelly, deve impersonare. Più precisamente Elvira ― nella traduzione di Giuseppe Montesano, regia di Toni Servillo, con Petra Valentini, Francesco Marino e Davide Cirri, foto di scena Fabio Esposito, produzione del Piccolo Teatro di Milano, Teatro d’Europa e Teatri Uniti ― è il diario in cui Brigitte Jacques, ideatrice della mise-en-scène, trascrisse le sette riflessioni orali sulla seconda scena della moglie di Don Giovanni. Si è in presenza, dunque, di una lezione-spettacolo; lo sfondo storico è l’irruzione di Hitler a Parigi. Quale fatica attoriale si cela dietro a un singolo pezzo (un monologo) che al pubblico potrebbe anche sfuggire? Cos’è l’attore? Cosa significa recitare? Jouvet, mettendo in crisi le giovani certezze di Claudia, cerca di riportare il discorso sull’essenza, affascinante, di quest’arte.

«Il comédien è il mandatario del personaggio, mentre l’acteur delega se stesso personalmente. Il comédien esiste grazie alla disciplina interiore, a una regola di vita dei suoi pensieri, del suo corpo. Il suo lavoro si basa su una modestia particolare, un annullarsi di cui l’acteur non ha bisogno». Ma, al di là delle nozioni teoretiche certamente rilevanti, il cuore dello spettacolo è centrato sul carattere di Elvira, sul cambiamento repentino della sua interiorità, sulla luce intima ― l’idée? ― che le fa vivere un’esistenza non più fedele alle passioni, ma ardente nel suo distacco. E qui Jouvet dimostra il suo talento ermeneutico. Elvira è colei che è stata toccata dalla grazia, alla quale è concesso di provare una serenità impareggiabile pur nella sofferenza del destino dell’amato. La preoccupazione di Elvira non è più in relazione a se stessa: è orientata a ciò che sarà di Don Giovanni. Alla nevrosi dell’angoscia si sostituisce la chiarezza della sollecitudine che l’attrice Claudia deve far ribollire dentro di sé per trasmetterla al pubblico e rendere credibile il suo monologo.

La Valentini è convincente nel modulare le varie gradazioni di senso che salgono imperiosamente verso una svolta apicale. Servillo parla a lungo senza sbavature, con la limpidezza argomentativa di chi recita un mantra e tenta di far passare la lezione nelle maglie allentate della vita. Torniamo verso l’auto, risalendo la via dei tornanti. Leggo una frase sul muro: «Ti vengo a prendere dove ci siamo persi». Piove di nuovo. Ma ora Delia è apparsa.

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