Velia Majo
Al Museo delle Culture di Milano

I dolori di Frida

La nuova, grande mostra milanese scava nel mito di Frida Kahlo; nella forza della sua ribellione, nel coraggio con il quale trasformò in arte il suo dolore

Quando lo scorso 6 luglio 2017 al Dallas Museum of Art si celebrò il 110° anniversario della nascita della celebre artista messicana Frida Kahlo (1907-1954) con un “Festival Frida”, i partecipanti erano stati invitati a travestirsi in modo da assomigliare alla pittrice. All’evento si presentarono cinquemila persone: donne, uomini, bambini tutti con costumi sgargianti. Lunghe sottane di velluto rosso o porpora, orlate da balze di cotone bianco e bluse morbide guarnite di ricami variopinti e trecce “alla Kahlo” ornate di nastri e fiori, e vestiti lunghi con scialli (rebozos). Questo perché sin dalla metà degli Anni Settanta, da quando il pubblico ha cominciato a familiarizzare con la sua opera, Frida Kahlo è diventata una figura di culto a livello internazionale.

A ricordarlo è Hayden Herrera, storica dell’arte americana autrice del libro Frida. A Biography of Frida Kahlo (pubblicato in Italia da Neri Pozza editore), volata a Milano da New York dove vive, durante la sua “lecture” sulla pittrice messicana, in occasione della mostra “Frida kahlo. Oltre il mito”. La mostra-evento apertasi lo scorso 1° febbraio al Mudec, Museo delle Culture a Milano, è un progetto espositivo frutto di sei anni di ricerche e di studi con inediti materiali di archivio con opere provenienti dal Museo Dolores Olmedo di Città del Messico e dalla Jacques and Natasha Gelman Collection, le più importanti e ampie collezioni di Frida Kahlo al mondo ed anche provenienti da musei come il Phoenix Art Museum, il Madison Museum of Contemporary Art e la Buffalo Gallery.

Per i latinoamericani che vivono negli Stati Uniti è diventata un’icona se non addirittura un talismano. In Texas è nota come la santa patrona delle ragazze madri – racconta Hayden Herrera – e dei lavoratori senza documenti. Venerata per la sua passione per le proprie radici indigene, l’amore per la cultura messicana, le sue idee politiche di sinistra; e per il modo in cui Frida Kahlo e Diego Rivera (pittore messicano che Frida sposò nel 1929) sfilarono per le strade e alzarono i pugni durante manifestazioni di protesta. Anche i chicanos, gli americani di origine messicana, si sono riconosciuti nell’insistenza di Frida sulla diversità. Frida sfidò le convenzioni nel modo di vestire, nel modo in cui arredò la sua casa, nella sfrontatezza con cui adoperava il linguaggio di strada messicano, nel fatto di avere avuto amanti. Anche se il dolore fu sempre presente nella sua vita, mantenne sempre una certa vivacità. Da quando l’incidente d’autobus nel quale rimase coinvolta a diciotto anni l’aveva resa parzialmente invalida, aveva combattuto contro il lento e progressivo disintegrarsi della sua struttura ossea. Subì trenta operazioni chirurgiche e i suoi quadri sono l’espressione della sua sofferenza vitale, punto centrale della mostra al Mudec insieme alla ricerca cosciente dell’Io, all’affermazione della messicanità, e alla sua leggendaria forma di resilienza permettono a chi visita la mostra al Mudec di percepire la coerenza profonda, che va oltre la sua apparente contraddizione, presente nell’opera di Frida.

Lei che è stata la prima artista a fare del proprio corpo un manifesto, ad esporre la propria femminilità in maniera diretta, esplicita e violenta rivoluzionando il ruolo femminile nella storia dell’arte. La mostra divisa in quattro sezioni, Donna, Terra, Politica e Dolore restituisce un’artista con una maniera singolare nel guardare lo spettatore con i suoi autoritratti, con quegli occhi scuri penetranti che fissano e fanno pensare di essere l’unica persona che possa condividere la sua esperienza. I suoi autoritratti faranno dire in una lettera scritta da Picasso, che il marito Diego Rivera mostrava con orgoglio: «Né Derain, né tu, né io siamo in grado di dipingere una testa come quelle di Frida Kahlo».

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