Domenico Calcaterra
A proposito di “Autoritratto nello studio”

Lo studio di Agamben

Il filosofo Giorgio Agamben racconta per frammenti la sua vita di studioso: gli incontri e gli scontri fanno da sfondo all'apocalittica convinzione che la letteratura e la vita hanno perso «ogni traccia di musica e di pensiero»

Non so se con Autoritratto nello studio (Nottetempo, 2017, pp. 174, €18,00) Giorgio Agamben abbia scritto il suo libro più intimo. Senz’altro, l’accentuato carico di trascendenza ne fa, più che un’autobiografia, un libro rivolto all’ascolto degli incompiuti “temi della vita”; all’inseguimento di cose e persone che hanno fatto parte del suo apprendistato e che adesso tenta di fermare, per sempre, nella speciale dimensione del “non poter finire di vederle”. Non è un caso che si affidi a un tema iconografico assai battuto in pittura, l’autoritratto nello studio, appunto: per parlare di sé, non può che principiare dagli oggetti che popolano (ideogrammi della memoria) i suoi studi nelle città di una vita, Roma e Venezia.

A parlare – larve di un passato mai del tutto consumato e azzerato nel presente della parola –, voci, incontri, attimi, oggetti, disposti insieme a disegnare una costellazione di private epifanie (nel risvolto di copertina si parla di autoeterografia). Lo studio, ci dice Agamben, è il luogo potenziale per antonomasia, di creazione e realizzazione (piena cognizione di sé): «provare a descrivere il proprio studio significa allora provare a descrivere i modi e le forme della propria potenza». Quella potenza che è figlia del conoscere; quel conoscere che è un ri-nascere, rigenerati dalla “cosa conosciuta”. Si professa senza infingimenti, in senso letterale, un epigono che mai rinnega l’autogenesi a principiare da altri. E, in effetti, non tace il debito contratto con ciascuno dei giganti sulle spalle dei quali è venuto declinando in questi anni il suo discorso. Dal decisivo incontro con Heidegger in Provenza nel settembre del ’66 (in occasione di un seminario a Le Thor), l’autore che sarebbe diventato, per il nostro, una sorta di “talismano esoterico”; all’incalcolabile debito con l’immenso Walter Benjamin, ossia la lezione somma di saper «strappare a forza dal suo contesto storico» ciò che interessa, «per restituirgli vita e farlo agire nel presente». Che è poi l’atteggiamento, viene naturale aggiungere, che dovrebbe essere proprio di chiunque (poeta, filosofo o critico, poco importa) voglia accostarsi in maniera proficua alla lettura di un classico (e qui, tra gli autori che appartengono al pantheon agambeniano troviamo Hölderlin e Melville, Simon Weil e Robert Walser). Per non dire degli amici e dei sodali di una Roma “quasi preistorica”: la Roma, tra gli altri, di Elsa Morante e Alberto Moravia, di Giovanni Urbani e Nicola Chiaromonte, di Giorgio Manganelli e Giorgio Caproni…

Scrive dell’impazienza come divisa esistenziale, di quel fuoco, rattenuto, fatto metodo, assurto a motto araldico; alla fine di tutto, riprendendo la radicale domanda di una celebre pagina dei taccuini di Nicola Chiaromonte, Agamben si chiede: «Che cosa rimane?» –, se non quel Bene che può esistere, pur nel nullificarsi del nostro Ego con la morte, solo grazie al nostro testimoniare e memorare?

Libro di sapienti incastri, Autoritratto nello studio (per quanto funga da diario intimo a ricucire le trame dei ricordi di una vita) ci viene offerto da Agamben come l’ennesimo tassello della sua vasta bibliografia, dottamente orchestrato nel fluttuante ritorno di una complementare polarità: il vedere e il non-vedere; il rifiuto e la ricerca; la luce e il buio; la vita e la morte. V’è poi l’insistito ricorso a un fragile e indefinito vocabolario, i cui lemmi portanti sono presto rivelati: l’indimenticabile; l’invisibile; l’invalicabile; l’irraggiungibile – a dire d’una tangibilità negata, asindetico approssimarsi a un qualcosa di latente e inafferrabile, ma pur sempre presentito. Talvolta l’incedere del suo discorso s’ingolfa, erompendo in un tono quasi oracolante, a tratti sentenzioso; tuttavia non scalfisce la forza dell’insieme, il repertorio d’incontri, svolte, tangenze, ricostruito andando a incrociare gli oggetti disseminati nelle sue stanze, assumendo, una simile peregrinazione memoriale, il senso di un appello alle illusioni ultime (quasi foscolianamente intese) dell’uomo.

Dei molti ritratti che riguardano gli amici di una vita, di sicuro il più sorprendente, tanto azzardato quanto veritiero, è quello dedicato Italo Calvino. Nel respingere il luogo comune di un Calvino alfiere del razionalismo geometrico in letteratura, conclude che la sua mente era capace di trasferire il dato storico «in una sorta di immaginaria preistoria», autentica dimensione di possibile e potenziale conoscenza.

Qualche considerazione merita di essere svolta riguardo al problema della lingua (e per taluni suoi detrattori proprio nella presunta oscurità di linguaggio consisterebbe il limite maggiore del Nostro) che qui Agamben chiama in causa nel rintracciare nella letteratura italiana del Novecento, portato di un radicale e diffuso atteggiamento dannunziofobico, un «appiattimento sul registro infimo» che avrebbe azzerato «ogni traccia di musica e di pensiero». Affermazione certo apocalittica e senza dubbio troppo generica, ma che, specie se riferita agli esiti letterari dell’ultimo decennio, ha invece il merito di porre l’attenzione sulla questione, tanto cruciale quanto rimossa, dell’importanza della “voce” in letteratura: soprattutto per la conclusione cui giunge alla fine del suo ragionare, ossia che una lingua che abbia rotto ogni legame «col suo principio musaico», smarrendone ogni traccia, «non è più una lingua». Su questa via, l’inciampo, l’irrisolto, il difficile, il non facilmente esplicabile, e ciò che fa tendere, reciprocamente, la filosofia verso la poesia («forse, in questo senso, io non sono un filosofo, ma un poeta»); e che lo induce ad autocollocarsi tra gli adepti della vittoria della parola, dello spazio del nome, sul discorso.

Il credo laico esibito da Giorgio Agamben in Autoritratto nello studio non riposa in fondo su nessun rigido dogma, se non la certezza che tra vivi e morti rimanga un infinito spazio di compresenza entro il quale ritrovarsi («fra i vivi e i morti non c’è più differenza, noi risorgiamo in loro come essi in noi»).

domenico.calcaterra@gmail.com

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