Tina Pane
Una storia di adolescenti

Un amore distratto

«Scesero tutti insieme, lei sperando che nessuno la vedesse uscire dalla casa, Guglielmo già proiettato verso la formazione: giocavano contro i paesani e temevano Luigi, il figlio del macellaio, che era uno che giocava a far male»

La prima volta che Guglielmo la vide lei stava svoltando l’angolo del senso unico su una bicicletta presa in prestito. Gli apparve come una valchiria, i lunghi capelli chiari arruffati dal vento, il seno generoso, i polpacci turgidi per lo sforzo di pedalare in salita.

Guglielmo stava al riparo dal sole sotto la tettoia del bar “di Alfonsino”, ma non seduto a un tavolo, solo appoggiato col sedere alla ringhiera che delimitava lo spazio esterno del bar dalla strada. Era annoiato o almeno così si era ripromesso d’apparire, in quel pomeriggio d’agosto, di caldo, d’estate senza sugo.

La valchiria continuò a pedalare attraversando la piccola piazza e venendo a fermarsi proprio davanti al bar, a pochi metri da lui. Era visibilmente accaldata e sul viso colorito dall’abbronzatura compariva un velo fitto goccioline di sudore. “Mamma mia, che fatica!” – esclamò scendendo dalla bicicletta e porgendola all’amica che l’aspettava. “Questa bicicletta non fa per me, Luisa, il sellino è troppo alto” – aggiunse scuotendo la testa, e cercando ristoro al calore alzò per un attimo i capelli che le coprivano il collo e le spalle. Fu allora che Guglielmo mise a fuoco il suo profilo, che si teneva tutto sul naso piccolo e dritto, leggermente all’insù. Fu allora che provò desiderio per lei, folgorato dalla voglia di infilarle una mano tra le tette, sicuro di trovare la zona calda e sudata. Fu un attimo. Lasciò la sua posa indolente, drizzò la schiena e si avvicinò alle due ragazze.

Glielo disse subito, guardandola fisso negli occhi: “Mi hai fatto pensare alla cavalcata delle Valchirie, quando ti ho vista spuntare dal senso unico”.

Suonava come un complimento, così lei accennò un sorriso, tra lo stupito e l’incredulo. Non le sembrava vero che il ragazzo più desiderato dell’estate le avesse rivolto la parola. Dovette prender fiato per rispondere, e con sguardo ammiccante ribatté: “Me la devi suonare, allora”.

Si ritrovarono due giorni dopo, su al Parco, dove quasi tutti i ragazzi del bar si erano rifugiati per scansare la folla dei pendolari della domenica.

A un certo momento, verso l’ora di pranzo, tutti si erano mossi per tornare a casa.

Ma lui le aveva chiesto “Ti va di trattenerti ancora?”, e seduti all’ombra di un pino, erano rimasti solo loro due. Lei lo guardava come aspettando qualcosa e lui continuava a posare accordi distratti sulla chitarra. Poi Guglielmo avviò una conversazione per sapere di lei e lei si sentì come se stesse rischiando l’insufficienza a un’interrogazione. In quei due giorni non aveva fatto altro che pensare a lui, sentendo uno scioglimento dentro, un desiderio, un’urgenza. Ma aveva evitato di dargli un nome.

Sapeva solo che sarebbe rimasta tutta la vita su quel prato ad ascoltare le sue note e le sue parole, e maledisse con tutte le forze le convenzioni da rispettare, il pranzo in famiglia.

Quando sentì la campana emettere due rintocchi fu costretta a dire “Si è fatto tardi, me ne devo andare”.

Lui disse “Aspetta…” e accennò sul mi cantino la melodia di Wagner. Poi le chiese: “Ti va di venire da me, dopo? Così possiamo continuare a parlare con calma”. Un fuoco le si accese dentro, disse subito sì.

* * *

Le varie portate del pranzo domenicale le transitarono in bocca senza lasciare sapore e senza riempirle lo stomaco, triturate da una febbrile attesa, da un metabolismo che già andava a mille. Alle tre del pomeriggio, dopo aver rifilato una scusa ai suoi (“Vado da Luisa, mi ha chiesto di darle una mano col latino”), attraversò il paese e varcò la porta di casa di Guglielmo, la testa intasata da mille aspettative. La porta era aperta, “Posso entrare?”- chiese. La voce di lui arrivò dalla cucina: “Vieni, sto finendo di mangiare”.

Trovò disordine e piatti sporchi, musica ad alto volume, e tutte le finestre aperte, che sbattevano nel vento. Forse s’aspettava un caffè, una parola di benvenuto, ma lui si comportava senza gentilezza, ostentando una naturalezza eccessiva che non corrispondeva alla loro recentissima conoscenza. Quando si alzò dal tavolo, lei si rese conto che indossava solo la maglietta e gli slip, e rimase senza parole quando Guglielmo andò a fare pipì lasciando aperta la porta del bagno.

A lei stava crescendo dentro un perfetto mix di paura e desiderio. Paura di non essere all’altezza di quel ragazzo di soli tre anni più grande, ma così avanti, così oltre: colto, disinibito, affascinante suonatore di chitarra. E desiderio, un desiderio smisurato, diverso da quello provato altre volte. Guglielmo le piaceva da morire, come sarebbe cambiata la sua vita, con lui accanto.

Finirono in breve sul letto sfatto di lui, con le lenzuola stropicciate e sporche di giorni. Lei voleva baciarlo, sapeva di baciare bene e pensava che nello stordimento delle bocche incollate sarebbe riuscita a calmarsi un po’, il cuore se lo sentiva in gola. Desiderava trovare un’intimità dentro cui parlare, senza trattenersi, senza provare vergogna. Sperava si creasse una benevola confidenza, come altre volte le era capitato su una panchina o su un muretto, per dire di lei: “Sono una ragazza con pochissima esperienza della vita ma ho una voglia straordinaria di percorrere altre strade”. Certo non gli avrebbe detto “Mi sono innamorata di te”, però poteva chiedergli “Guidami tu, fammi guardare il mondo con occhi diversi”.

Ma rimase tutto chiuso nella sua testa, perché Guglielmo indirizzò diversamente l’incontro. Voleva altro, e se lo prese. Le cercò subito il seno e, dopo averle abbassato il reggiseno, immerse il viso nelle sue tette, sbavandoci sopra come una lumaca. Poi le spinse la testa sul pene per farglielo succhiare, e per superare le resistenze di lei, le sussurrò una frase che le suonò stonata “Sei impacciata e maldestra, ma non sai quanto desiderabile”.

Lei lo lasciò fare, non avendo il coraggio di opporsi, ma solo quello di assecondare. Provava disgusto, si sentiva inadeguata, ma era come una prova, e voleva superarla.

Dopo ascoltarono musica e lui parlò di sé, col tono di chi elargisce delle rivelazioni, raccontando dell’università da poco cominciata, del padre morto giovane, del “rapporto matto e disperatissimo con Marta”, la sua ragazza da quattro anni. A lei non chiese nulla.

Verso le cinque passò il cugino a chiamarlo, dalla strada, avevano una partita al Circolo dei Villeggianti, se n’era dimenticato?

“Sali, non sono pronto” – gli rispose dal balcone, sempre in mutande.

Una volta di più spiazzata, lei corse in bagno a rivestirsi, a lavarsi almeno le mani.

Scesero tutti insieme, lei sperando che nessuno la vedesse uscire dalla casa, Guglielmo già proiettato verso la formazione: giocavano contro i paesani e temevano Luigi, il figlio del macellaio, che era uno che giocava a far male.

Per fortuna al bar trovò Luisa che l’aspettava, si era dimenticata che avevano appuntamento.

“Ciao Guglielmo, io mi fermo qui” gli disse, e si salutarono come se nulla fosse successo tra di loro.

Luisa la guardò interrogativa, lei fece un sospiro e disse “Devo raccontarti una cosa”.

“Ok – disse l’amica – ma prima vai in bagno”.

“In bagno…perché?”.

Luisa indicò col dito il ciuffo di capelli ondulati che le cadeva sulla fronte.

“Te li devi sciacquare, sono tutti… appiccicosi”.

“Appiccicosi? – fece lei, e se li toccò.

Un lampo e capì.

Appiccicosi, certo, se li doveva sciacquare prima di tornare a casa.

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Nelle illustrazioni, tre incisioni di Eva Fischer

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