Claudia Colaneri
Un storia teatrale

Mrs Robinson

«Quando Martha arrivò a Piazza del Sant’Uffizio, il portone delle suore era aperto. Quella sera non c’era molta gente in fila per un posto letto. Entrò e andò a recuperare le sue poche cose»

“Niente foto, please!” Disse vezzosamente la vecchia, “È da Natale che non lavo i capelli.”

“Ma signora Robinson, Natale è domani!” Osservò Sara, la giovane operatrice sociale inviata dal Comune a verificare le condizioni di due anziane straniere.

“Non sbaglio, è da Natale 2015 che non lavo i capelli!”

“È una zozza lurida!” Intervenne Alma, la sua coinquilina, poco meno anziana di lei.

Martha Robinson era rannicchiata su una sedia pieghevole sistemata tra il letto di Alma e un pianoforte. Indossava galosce verdi, i pantaloni leopardati di un pigiama, un soprabito cerato da pescatore, un cappello che teneva nascosti i suoi capelli bianchi e secchi. La carnagione rosea, il naso adunco e gli occhi azzurro cielo dichiaravano le sue origini scozzesi.

“Signora Robinson” continuò Sara.

“Martha, chiamami Martha, cara.”

“Va bene, Martha, la prego…”

“Nessuno prega in questa casa, my dear! Dio è troppo lontano per sentire le preghiere!”

“Martha, abbiamo bisogno della sua foto”.

“Vedi piccola, mi porti troppo rispetto, dammi del tu.”

“La senti, la senti?” Disse Alma con tono esasperato. “Ti manda ai pazzi. Martha stai zitta e fai parlare la signorina.”

Martha, trattenendo una risata, incrociò gli indici sulle labbra come una bimba che promette il silenzio.

Sara si avvicinò al suo viso e disse: “Martha, abbiamo bisogno della tua foto per il passaporto.”

Martha continuava a sorridere con le dita sulle labbra e scuoteva la testa.

“No, no,  non fare così, su. Non possiamo aiutarti se non collabori.”

“Il passaporto? Perché? Dove deve andare?” Chiese Alma.

“Non è per andare, è per restare.” Spiegò Sara, “Non possiamo fare nulla per lei se non ha un documento.”

Mrs Robinson smise di ridere, si volse verso la finestra e lanciò il suo sguardo lontanissimo, poi cantò:

“Ma il mio mistero è chiuso in me,

Il nome mio nessun saprà.”

Mentre Alma protestava perché non sta bene che una signora canti la parte di un tenore, i ricordi di Mrs Robinson l’avevano già portata lontano da quella squallida stanza.

* * *

Appesa a un cappio di corda la giovane Martha dondolava. Se avesse avuto delle vere ali sarebbe stato tutto più semplice, invece quelle attaccate alla pettorina di cuoio le stringevano il torace e la soffocavano. L’arco d’argento che teneva a tracolla le si impigliava al tutù e le lenti nere degli occhiali moltiplicavano la distanza da terra. Sospesa sul palcoscenico, dondolava.

La musica le massaggiava il torace e le scaldava i polmoni. Dalla platea e dai palchetti risuonava l’eco dei pensieri stranieri di ciascuno spettatore. Tra il pubblico, una piccola sagoma nera si alzava in piedi e indicava verso di lei, come fosse il pagliaccio del tiro a segno ebbe l’impressione che stesse per arrivarle una torta in faccia. La panna le aveva sempre fatto paura.

Guardò dietro le quinte e vide la sua bambina che dormiva su un divano in attesa di essere allattata. Aveva dimenticato di mettere un cuscino a terra così la bimba si svegliò e rotolò sul pavimento battendo la testa. Il canto di Martha coprì le urla della piccola che restava a terra senza soccorsi.

Sospesa sul palcoscenico dondolava, cercava di attirare l’attenzione di qualche tecnico di scena dimenandosi sull’altalena e sperando che si staccasse per poter raggiungere Betty e farla smettere di urlare, di essere sola, di avere freddo, come lei in quel momento.

Finalmente fu calata, lentamente, e quando sentì le tavole di legno sotto ai piedi, finì di cantare la sua parte: “Oggi in un sol certame,

L’un e l’altra di voi da me abbattuta,

Dirà, che ‘l mondo a’ cenni miei si muta.

Ad un cenno di Amore il cielo svanisce”.

Si voltò e vide Vittorio che, con i lembi di una coperta in mano, faceva dondolare Betty che ancora piangeva.

Martha li raggiunse dietro le quinte, prese la bimba tra le braccia e vide che sanguinava da un labbro.

Erano passati diciotto mesi dal quel maggio 1962, in cui lei e Vittorio si erano incontrati. L’avvenente soprano Martha Robinson si trovava di nuovo in tournée a Roma con l’opera di Montevendi “L’incoronazione di Poppea”,  nella quale interpretava il ruolo di Amore, indossando un abito che il talentuoso costumista della compagnia, Vittorio Angeloni, aveva realizzato per lei.

In quel momento, nello stesso camerino di allora, c’era anche Elisabeth, Betty, una sorridente bambina di nove mesi che proprio quella mattina aveva conosciuto suo padre.

Mentre Martha si rinfrescava il trucco per il terzo atto, bussarono.

“Posso?”

“ Oh Vittorio, grazie.”

“Prego, quando qualcuno ti chiede di entrare si dice, prego”.

“Oh, sorry Vittorio.”

“Grazie, si dice, grazie quando qualcuno ti insegna a parlare italiano, Grazie Vittorio si dice. Credevo che tornassi con un italiano migliore.”

Martha risolse la conversazione con una leggera risatina, lui si volse serio verso il seggiolino dove era seduta Betty che imitava la risata della mamma.

Mentre lei continuava a truccarsi, lui le si avvicinò per controllare se le ali fossero ancora attaccate al costume. Sfilò dal puntaspilli un ago e diede due punti di rinforzo a un gancetto.

“Stringe.” Si lamentò Martha indicando la pettorina.

“Bene!” Rispose lui. “Ora vieni qui vicino.”

Quando lei gli fu di fronte, dovette sollevare di molto il mento per guardare i suoi occhi neri. Lui le sfiorò le maniche di tulle, poi scivolò sulle spalle e di scatto la fece voltare.

“Aspetta, così canterai meglio.” Le toccò i fianchi, infilò le dita sotto agli elastici del body e tirò verso l’alto.

Lei sussultò.

“E’ un po’ scomodo, lo so, ma vedrai che la voce di Amore, adesso sarà carnale.”

Una donna entrò nel camerino per sorvegliare la bambina, mentre Martha si affrettava a raggiungere il palcoscenico  con il body che le si inumidiva.

Vittorio disse senza correrle dietro:

“Dimentichi gli occhiali neri.”

* * *

La signora Robinson venne per un attimo accecata dal flash dello smartphone di Sara.

La prima immagine che inquadrò una volta riacquistata la vista, fu il pianoforte che Alma teneva gelosamente chiuso a chiave.

“È una strega, sai? “ disse sottovoce a Sara. “Non vuole farmi suonare.”

“Tu non sai suonare!” Precisò Alma.

“Lo so, ma dovevo esercitare la voce. Ora è tardi, per colpa tua non canto più.” La signora Robinson accennò un pugno contro la sua amica Alma.

“Cantava come un angelo, sa?” Disse Alma addolcendo lo sguardo. “Quando la incontrai dalle suore di Madre Teresa era una creatura scalza e coperta di stracci. Io suonavo al cenone di Natale per i poveri, tutti gli anni. Quella volta incontrai questa qui, che si mise a cantare tra i tavoli come una dea. E io, scema, me la portai a casa.”

“Ha fatto un bel gesto.” Commentò Sara.

“No, non me ne importava niente di lei. Volevo salvare la sua voce.”

“Perché ti serviva.” Intervenne Martha.

“Sì, mi serviva per suonare in giro, nelle chiese, nelle ambasciate, nei convitti. Eravamo molto richieste, sa? Davamo anche lezioni private. Non mi ero accorta subito che era matta.”

“Matta a chi?”

“A te, vecchia pazza!”

Martha replicò con il gesto delle corna contro Alma e si chiuse in un addolorato silenzio.

* * *

Gennaio 1969. Seduta in bilico su un pezzo di marmo, dondolava. Gli slip ormai erano fradici e ghiacciati. Il vento soffiava sulla fontana dei Quattro Fiumi a piazza Navona e l’acqua bagnava il bordo dove era seduta Mrs Robinson.

La stoffa gelata rendeva la sua voce ancora più acuta e sottile. Vittorio ne sarebbe stato contento, o forse si sarebbe infuriato perché il vento si era sostituito al suo genio creativo. Si sarebbe infuriato con lei, che aveva le piante dei piedi così luride e ferite da sassolini e frammenti di vetro. L’avrebbe umiliata per la fetida vestaglia che indossava e i capelli scuriti dal grasso. Avrebbe indicato le sue labbra spaccate dalla tramontana e si sarebbe allontanato ancora una volta senza darle un bacio.

Questo avrebbe fatto Vittorio se avesse saputo dove trovarla.

Intanto Martha, con un braccio alzato a indicare la luna che anticipava la sera, cantava: “Casta Diva che inargenti queste sacre e antiche piante” e un anziano artista ambulante la ritraeva come una vestale.

Se avesse saputo dove trovarla Vittorio l’avrebbe riportata a casa e avrebbe continuato a lavorare.

Lei era il suo modello. Lei era la base. Su di lei misurava, appoggiava, applicava, cuciva, tagliava, strappava, dipingeva. “Non vedo, non guardo, visiono!” Le diceva.

Martha aveva imparato che non era lei la visione, non era una musa, un’ispirazione, era Vittorio stesso che visionava, si ispirava, creava. Lei era solo l’appoggio.

“Vieni!” Le ordinava a qualsiasi ora del giorno e della notte e Martha doveva raggiungere immediatamente il centro del laboratorio e assumere la posizione neutra, con i piedi divaricati secondo l’ampiezza delle spalle, i gomiti leggermente sollevati e le ginocchia un poco piegate. Da qui lui partiva a disegnare sulla sua pelle nuda linee, sagome, forme geometriche. “Canta, Tosca!” Le diceva e lei intonava l’aria “Vissi d’arte, vissi d’amore” come una preghiera per non ridere, non piangere, non tremare e non fremere.

Per ore ed ore. Prima che Vittorio, sudato e ansimante, la congedasse con un “Grazie!”

In quel momento lei concedeva alle sue ginocchia di cedere.

* * *

Quando Martha arrivò a Piazza del Sant’Uffizio, il portone delle suore era aperto. Quella sera non c’era molta gente in fila per un posto letto. Entrò e andò a recuperare le sue poche cose che, con la complicità di una suorina, teneva nascoste dentro una madia, nel corridoio.

Ormai erano tre mesi che alloggiava lì, quando c’era posto. Quella sera avrebbe potuto anche fare una doccia, forse, ma non le importava. Si puliva sotto le unghie quel tanto che bastava per potersi guardare le mani, se capitava. O altrimenti, nella sua bustina aveva ancora i guanti che Vittorio le aveva cucito, lunghi fin quasi sotto le ascelle. Non più candidi, ma comunque bianchi. Li indossava per andare a dormire e per abbracciarsi come se fossero proprio le mani di Vittorio, che non l’aveva mai abbracciata, di notte.

Lui lavorava sul suo corpo senza mai toccarla veramente, ma solo attraverso una stoffa, la lama delle forbici, la punta di una penna, indossava sempre un paio di piccoli guanti bianchi quando la toccava.

Lei aveva aspettato quel contatto da subito, da sempre, per sempre.

Quelle volte che lei aveva fatto l’amore con lui, sempre alla fine di un lavoro riuscito, era sdraiata a pancia sotto, con la schiena coperta da un lenzuolo.

Poi venne un giorno che fu toccata, dentro. Era la sua bambina che le si agitava nel ventre, mentre Vittorio disegnava sulla pancia. Le piaceva immaginare che fosse contento. “Canta!” Le disse, lasciandola libera di scegliere.

E lei cantò il lamento di Liù:

-Signore, ascolta! Ah, signore, ascolta!

Liù non regge più!

Si spezza il cuor!

Ahimè, quanto cammino

col tuo nome nell’anima,

col nome tuo sulle labbra!-

* * *

Alma aprì il pianoforte e poggiò delicatamente i polpastrelli sui tasti sporchi e consumati. “Questa è la prima musica italiana che imparai nel mio Paese. Lo sa che vengo da Malta?”

Sara riconobbe immediatamente la melodia di “‘O sole mio” ed ebbe l’istinto di distrarsi come faceva sempre quando ascoltava una musica scontata come questa, ma qualcosa glielo impedì. Il suo sguardo prese a danzare per la stanza, si posò sui sacchi di stracci addossati alle pareti, sull’abat jour scolorita, sul copriletto macchiato di urina e di peli di cane, tutto era così orrendamente squallido, eppure il sole entrava lo stesso dal vetro opaco, scaldava tutto e sembrava disinfettare ogni cosa. La musica del pianoforte si posava su tutto in un bagno di luce dorata.

Martha piangeva in silenzio.

Ricordava un armadio pieno di ogni cosa e sua figlia incastrata al buio tra cappotti fetidi e lenzuola arrotolate. Gli assistenti sociali l’avevano trovata lo stesso e l’avevano portata via.

Lei non aveva potuto salvare nessuno, né Betty, né Vittorio che era morto annegato nell’alcool, né la sua voce.

Alma abbassò il coperchio della tastiera provocando un tonfo.

Mrs Robinson uscì dal suo torpore. “Niente foto, please. Voglio farmi dimenticare”.

—–

Claudia Colaneri lavora prevalentemente in ambito sociale come operatrice e formatrice, specializzata in teatro integrato, metodo autobiografico, scrittura creativa, musicoterapia. Regista teatrale e scrittrice, nel 2015 il suo racconto Fuor di Metafora è stato inserito nell’antologia Racconti nella Rete 2015 (ed. Nottetempo); nel 2016 ha pubblicato il romanzo La regola del Lotto e la chiave nel pozzo (ed. AlterEgo), altri suoi racconti sono pubblicati sul magazine Mag O.

Facebooktwitterlinkedin