Paolo Petroni
Uno spettacolo “educativo"

Scene dal disagio

Ne "La classe” di Vincenzo Manna (diretto da Giuseppe Marini) c'è una rappresentazione cruda e limpida del disagio giovanile a tutte le latitudini. Un lavoro che induce a riflettere sulle nostre vite

Le notizie su abitudini e caratteristiche della vita delle galline, chiose alla vicenda e ai personaggi fatte da Albert, giovane e precario professore, sembrano ricordare il fortunato titolo di un libro di Anthony De Mello e voler dire che i suoi alunni sono aquile che si sentono polli, incapaci di volare. Sono un gruppo di sei ragazzi e ragazze fortemente disadattati, sospesi durante l’anno per diversi motivi disciplinari e così costretti a seguire un corso per recupero crediti per potersi diplomare in una scuola professionale in qualche degradata periferia urbana, i protagonisti di La classe, scritto da Vincenzo Manna sulla base di un inchiesta documentaria e centinaia di interviste realizzate da Tecné, prodotto da Società per attori con la regia di Giuseppe Marini, rappresentato a Roma per quattro settimane nel decentrato Teatro Marconi.

Normalmente non si parla di uno spettacolo che ha concluso le sue repliche, ma qua sentiamo il dovere di farlo, sia perché sicuri che avrà un seguito, e non solo in previste e ovvie rappresentazioni per le scuole, sia per sottolineare che si tratta di un lavoro per tutti, a cominciare dai genitori e professori se sapranno cogliere sotto questo ritratto estremo quanto c’è di vero sul disagio e isolamento di questa generazione. Non ne parlo comunque per i contenuti e il loro valore, ma soprattutto perché si tratta di uno spettacolo molto ben costruito, con una lingua mimetica e fisica dura e diretta che un giovane può ben riconoscere quando non rispecchiarvisi o almeno ritrovarsi, che punta sull’azione e il vigore del corpo e delle parole così da crescere in forza di questo abbinamento e mostrare uno sviluppo emotivo che finisce per coinvolgere e emozionare, proprio perché nella sua concretezza fugge qualsiasi retorica.

Sono sei ragazzi aggressivi e violenti questi di Manna portati in scena da Marini con un ottimo lavoro sugli e degli attori, sono spaventati nell’incapacità di capire, di dare un senso a quel che gli capita nella scuola che è solo un amplificatore dell’inutilità e vanità delle proprie vite, compressi all’interno di una classe in cui tutto il dramma si svolge. Siamo in un istituto il cui preside punta solo a limitare i danni, a trovare come impegnarli proiettando un film o altro che faccia passare il tempo e poi diplomarli alla fine comunque, per liberarsene e non aver noie. Come nei più classici racconti scolatici, a questa filosofia è naturalmente estraneo il professore capitato lì per caso, abituato invece a cercare sempre di dare un senso a quel che fa. All’inizio viene travolto anche fisicamente dalla valanga della violenza dei ragazzi, dal loro bisogno prepotente di dimostrare astrattamente che esistono e non vogliono adattarsi a quel che gli accade. C’è il rabbioso Vasile (interpretato da Edoardo Frullini) col coltello in tasca pronto a sputar fuoco e fiamme su tutto, compresa la propria ragazza vittima Arianna (Valentina Carli) e a prendersela con i rifugiati, gli immigrati relegati in un non lontano campo detto lo Zoo; c’è la giovane Maisa (Cecilia D’Amico) terrorizzata da tutto e tutti, che vive spaurita e pronta fuggire; la passiva Petra (Giulia Paoletti) di famiglia ebraica, quindi comunque destinata a essere indicata come diversa, un po’ come il nero Talib (Haroun Fall), tollerato perché smercia fumo agli altri, e Nicolas (Carmine Fabbricatore) capace di momenti di furia di cui lui stesso non capisce il senso. Tutti vorrebbero solo firmare il foglio delle presenze e andarsene subito e reagiscono alle resistenze di Albert (mite e solido come lo rende Andrea Paolotti), che li provocherà facendo il ritratto di ognuno di loro, partendo dall’esaltazione dei caratteri positivi per arrivare a toccare i loro punti deboli, le radici del loro modo di essere, e li conquista aggiungendo anche una propria impietosa, strumentale autoanalisi.

Perché questi polli tornino a sentirsi aquile bisogna che escano dalla confusione generale, che trovino una direzione e la possibilità di impegnarsi per un fine. Questo accadrà grazie a un dossier inedito passato da un rifugiato proveniente da un paese in guerra e sotto una feroce dittatura che non si ferma davanti a nulla, né donne né bambini, grazie al quale i ragazzi possono pensare di partecipare a un concorso europeo che mette in palio un sacco di soldi per i vincitori. Piano piano tutti, col miraggio del guadagno e provocati dalle disturbanti immagini e storie che ricostruiscono, si coinvolgono nel lavoro, tranne Vasile che nel suo percorso autodistruttivo ha rotto ormai i ponti con qualsiasi regola e emozione.

Inutile dire come andrà a finire, parlare del preside (Tito Vettori) che fa comunque il pesce in barile o rivelare alcuni duri colpi di scena all’interno di quest’aula che è lo specchio della società, della realtà sociale della cittadina in cui la scuola è situata. Nella versione teatrale (ce ne è una con alcuni tagli da portare proprio all’interno delle scuole) l’incontro con uno dei rifugiati viene messo in scena e il racconto che la donna (un’umanissima Ludovica Modugno) farà della sua storia è il momento in cui la verità e il senso della loro ricerca prende corpo, diventando viva esperienza che non può non lasciare un segno. Assistiamo a un percorso da cui sarebbe facile prendere le distanze dicendo che si tratta di una situazione molto particolare, se non avvertissimo in esso qualcosa che ci riguarda profondamente perché il disagio che esprime vive accanto a noi, è metafora di questi anni confusi poco capaci di costruire percorsi di speranza, e non diventasse coinvolgente la loro evoluzione, grazie al testo, più ricco di sfumature di quel che può sembrare, ma soprattutto, come è sempre per una messinscena, per il lavoro svolto dalla regia con questi giovani attori, applauditissimi alla fine, che affrontano una prova molto difficile senza risparmiarsi e senza mai apparire sopra le righe, regalando al gruppo e ai propri personaggi una sorprendente verità.

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