Lidia Lombardi
Viaggio nella Grande Mela

Il gelato di NY

I post-it pro o contro Trump, gli alberi di Natale, gli homeless e il lusso sfrenato: New York non cambia mai. Neanche dopo l'ubriacatura per l'elezione del nuovo Paperone

Chissà se ci capiterà di vedere un altro Thanksgiving Day come il primo di Trump eletto presidente Usa. New York è una bolgia spasmodica e fosforescente. E se, come ogni anno dal 1961, il Wall Street Journal pubblica lo stesso nostalgico editoriale con lo stesso titolo, “The desolation wilderness” (leggi “Una terra selvaggia e desolata”, ad evocare l’approdo nel nuovo mondo dei Padri Pellegrini nell’anno di Grazia 1620), la parata di Macy’s, ovvero la sfilata di carri natalizi e di pupazzi gonfiabili che salgono in su da 90 anni ad affacciarsi ai piani alti dei grattacieli, il corteo organizzato dal più famoso grande magazzino della Grande Mela dicevo, è osannato da un muro umano difficile da penetrare, anche dai bambini, anche da quanti sono inchiodati su una carrozzella eppure vogliono esserci. Alla faccia della vigilanza della polizia di New York, allertata per il timore di qualche guastafeste dell’Isis. Il giorno dopo, l’atteso Black Friday, quando i negozi stelle e strisce vendono merce super scontata dando il via all’ubriacatura consumistica del Natale, Macy’s sopporta un’ondata di visitatori quantificata in 16 mila persone. Un record, come non si vedeva da molti anni. Stessa solfa sulle autostrade e negli aeroporti, certifica il New York Times: 48 milioni di persone in movimento per raggiungere parenti e amici, un acme non toccato dal 2007.

new-york24Effetto Trump, viene ovvio di dire? Effetto Trump, probabilmente. Oppure il corollario del fiato tirato alla fine di una campagna elettorale pessima, anche questa mai vista, percorsa da tanto squallore. Adesso si volta pagina. A New York il buio è azzerato non solo dal neon di Times Square. Ma dall’Albero di Natale appena acceso al Rockfeller Center. E dalle luci che brillano di giorno in giorno sempre più numerose nelle strade, la 34.a con grandi palle rosse ammucchiate davanti a una banca, la sfilza dei Principi Schiaccianoci sistemati ad ogni angolo e addirittura un filo di lampadine da abete natalizio in formato gigante, aggrovigliate come quando escono dalla scatola riposta per un anno in cantina, cosicché fanno effetto scultura.

new-york23Mister Trump dalla Florida, dove ha passato nel suo ranch la festa in famiglia, lancia appelli alla pacificazione: «Cominciamo a sanare le nostre divisioni», dice sotto il ciuffo giallo, rilanciato da tutte le televisioni. Siamo entrati due volte nella sua Torre, al centro della 5th Avenue, accanto alla mitica gioielleria Tiffany e di fronte a Chanel. Uno smerigliato fortino praticabile da tutti, basta infilare le transenna che restringe una parte del marciapiede e dire al poliziotto di NWPD che si è diretti alla Trump Tower. Due giorni prima del Thanksgiving i giornalisti stazionavano – chi seduto in terra, chi con la cinepresa imbracciata, chi col taccuino sul palmo – nella hall, proprio davanti agli ascensori lucidi e dorati (perché nel regno del magnate tutto è lucido e dorato) dove entrano i papabili della squadra di Mister President, lo staff che si porterà alla Casa Bianca. Solo il primo livello delle scale mobili era accessibile, permettendo di raggiungere l’ennesima replica della catena Starbucks Coffee al quale Trump ha dato un po’ del suo spazio. Sull’altro marciapiede i curiosi, e soltanto una contestatrice, una nera magra e alta, fiera del cartello “Not my President” illuminato da lampadinette colorate. Lei ha lasciato la sua postazione il Giorno del Ringraziamento, lo stesso hanno fatto i reporter. In compenso la Tower è animatissima di visitatori che, dopo essere stati sottoposti al controllo delle borse dalle guardie private e osservati discretamente dalle decine di uomini in divisa sistemati agli angoli della Fifth ma affiancati da cani all’ingresso, salgono e scendono scattando foto dalle scale mobili che portano fino al terzo livello, alla vetrata del giardino pensile che affaccia sui grattacieli. Musica soft, cascata d’acqua a ciclo continuo da una parete di marmo aranciato, scatole col fiocco rosso a simulare pacchi natalizi come addobbi, l’immancabile enorme Schiaccianoci di legno, un gigantesco albero di Natale e gli avventori seduti ai tavolini del ristorante, di fronte al banco dei gelati (il “Trump’s Ice Cream Parlor”), a sbirciare la vetrina dei gadget di Donald (libro, cravatta, profumo “Success by Trump”…), a comprare souvenir nel negozietto gestito da un compìto indiano, che vende anche francobolli, merce rara da trovare a NY, eccetto che negli uffici postali.

new-york22Insomma, tutto il soft del lusso accessibile a tutti, a far ben sperare nel futuro, in un’America di nuovo grande, come da slogan del candidato che ha vinto al quale credono il 46 per cento degli intervistati di un sondaggio Gallup, l’11 per cento in più del mese scorso.

In una città dove ciascuno ha un ruolo e un posto assegnato – anche gli homeless sdraiati ovunque, da Wall Street a Madison Avenue, la via dei negozi eleganti – sembra che pure i pro e gli anti Donald possano convivere. Il venditore ambulante sistemato nel Giardino di Strawberry Fields – dedicato da Yoko Ono a John Lennon nel cuore di Central Park, sul lato dove il Beatle abitava e fu assassinato – mostra sul suo banchetto, affiancate le une alle altre, spillette rotonde buone per tutti: perché certe hanno la scritta “Trump my President” e altre, in egual numero, lo slogan opposto. Dove la rabbia monta di più è nella stazione metro di Union Plaza. C’è un muro invaso da post-it, che aumentano nel week end, perché quasi come in pellegrinaggio ci si va a lasciare un bigliettino con l’umore politico. Quasi tutti contro Trump il volgare sessista (fioccano i “grab your own pussy”), razzista (“Todos somos imigrantes”) fanfarone (“America is a continent”). Ma qualcuno azzarda un “Billary Blinton”, “Nobama”, “Be the change”.

Già, il cambiamento. È per questo che ha votato Trump Jerry, un ottantenne incontrato sul molo di Coney Island, dove si va in bicicletta con la canna da pesca per prendere qualcosa in mare in una gelida mattina di sole. Ha una gran voglia di parlare. «Mi chiamo Jerry, vuol dire Jerome. Sono figlio di immigrati italiani, di Napoli. Ci sono andato quand’ero militare». Che ne pensa di Trump? «L’ho votato, ci può dare una possibilità in più». In Italia dicono che è simile a Berlusconi… «Se è così va anche bene. Basta che non diventi come Mussolini…».

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