Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Fabio Pusterla

Poesia di frontiera

«Credo che la poesia debba mettere radici nella concreta esperienza esistenziale: occorre ritrovare con la scrittura poetica una pronuncia del mondo». Incontro con Fabio Pusterla.

La poesia di Fabio Pusterla è ricca di paesaggi alpini, di crepacci, di picchi solitari, di sentieri frequentati da stambecchi e camosci che portano in luoghi freddi e inospitali. Non a caso Pusterla, ticinese di nascita, vive nella zona di confine tra Svizzera e Lombardia. La sua ultima raccolta, che risente molto di tali atmosfere, si intitola Argéman (pagine 240, euro 16,00) ed è stata pubblicata da Marcos y Marcos nel 2014.

Poesia di frontiera dunque, di passaggio, che presuppone un “prima” e un “dopo” o, più semplicemente, la grazia di un pertugio, quelle «piccole porte dove si affacciano volti e paure, domande che lacerano», come si legge in quarta di copertina. Risulta quanto mai tangibile, nell’economia della raccolta, una sensazione di freddezza, di durezza, di estraneità («Tutto, lì attorno, prende il colore della pietra»), basata su toni autunnali e invernali, che emana dai testi di Pusterla, una sorta di amaro repertorio teso ad indagare fatti di cronaca alternati ad occasioni più propriamente politiche, ma sempre sul filo del rasoio. «Ma io non urlo, canto senza luce» ammette significativamente lo stesso poeta il cui percorso annovera le raccolte Concessione all’inverno (1985), Bocksten (1989), Le cose senza storia (1994), Pietra sangue (1999) e Folla sommersa (2004). Einaudi ha pubblicato nel 2009 nella collana “bianca” la bella antologia Le terre emerse che comprende una scelta di poesie scritte dal 1985 al 2008.

Il suo percorso poetico procede in maniera piana, orizzontale, senza conoscere uno sviluppo appariscente, essendo sin da subito orientato a sondare un tipo di poetica cui rimarrà sostanzialmente fedele negli anni e che annovera ormai diverse raccolte: dall’iniziale Concessione all’inverno (1985) fino al recente Argéman (2014). Ce ne può parlare?

Fabio PusterlaL’autore è l’ultima persona a poter parlare oggettivamente del proprio percorso; io non credo di riconoscermi nella “maniera piana, orizzontale” di cui dice la domanda, ma posso sbagliarmi di grosso. La mia percezione è piuttosto quella di un cammino complicato e accidentato, lungo il quale ho scoperto nuove cose e ho progressivamente trasformato il mio modo di scrivere, rimanendo fedele, questo è senz’altro vero, ad alcune idee di fondo. Quali? Intanto, l’idea che la poesia dovesse mettere radici nella concreta esperienza esistenziale; poi, che fosse necessario ritrovare con la scrittura poetica una pronuncia del mondo, e dunque anche un rapporto con il lettore. Infine, che la poesia non dovesse medicare, ma esplorare, se necessario con crudeltà.

Mi sembra che, nel suo caso, si possa parlare di una «poesia civile» fatta a partire da altri presupposti.

Come sempre, bisognerebbe intendersi sui termini; esiste una poesia seria che non sia anche «civile»? Ne dubito; perché la poesia, indagando la parola e togliendola dal suo uso quotidiano, modifica profondamente il nostro rapporto con la realtà, con la rappresentazione della realtà, che è fatta appunto di parole, e dunque incide profondamente sulla nostra visione del mondo. Ed è questo, a mio avviso, il suo più alto valore civile e critico. Poi, ci sono autori, e io sono della famiglia, che non disdegnano di utilizzare come «materiali» della poesia anche materiali quotidiani, concreti e politici, e che forse privilegiano la ricerca di qualche frammento di «verità» all’effetto puramente estetico. Le due cose, speriamo, possono trovare un punto d’unione, come ci insegna Leopardi. Ma dovendo a tutti i costi scegliere…

Può ricordare la figura di Giorgio Orelli, recentemente scomparso, a cui lei era particolarmente vicino?

Giorgio Orelli è stato un grande maestro, con la sua poesia, con le sue traduzioni e con la sua opera critica. Pochi meglio di lui, io credo, hanno saputo indagare cosa realmente avviene nel laboratorio sempre un po’ misterioso della scrittura; la sua profonda convinzione, che metteva radici nel magistero di Gianfranco Contini, ma anche e soprattutto nello studio attentissimo dei grandi classici italiani (da Dante a Montale) ed europei (da Goethe, mirabilmente tradotto, a Baudelaire, Mallarmé e Valéry, solo per fare alcuni nomi), era che in poesia il significante non sia scindibile dal significato. Una profonda alleanza di suono e di senso orienta il linguaggio poetico, e chiede al lettore sensibilità d’ascolto e intelligenza. L’Oscar Mondadori curato da Pietro De Marchi (che è a sua volta valido poeta), che ripropone tutte le poesie di Orelli, è un primo segno di riconoscenza e di sistemazione critica di un’opera tanto importante e tanto trascurata dall’editoria maggiore.

Lei ha tradotto dal francese, misurandosi soprattutto con un autore come Philippe Jaccottet. Può parlarci di questa sua attività?

ArgémanHo cominciato a leggere, e poi quasi subito a tradurre Jaccottet quasi trent’anni fa; non è il solo autore che ho tradotto, ma certo è stato quello a cui ho dedicato maggiore attenzione, e che maggiormente mi ha affascinato e influenzato. Tradurlo è stato difficile e avventuroso; e forse non ho mai imparato così tanto sul linguaggio della poesia come durante l’esercizio della traduzione, perché tradurre significa cimentarsi con una difficoltà improba e necessaria, che chiede una costante attenzione e una costante invenzione linguistica e critica. Oggi Philippe Jaccottet è soprattutto un amico, malgrado la differenza d’età (e di tante altre cose, si capisce!); e la stesura della prefazione al volume che raccoglie per la Pléiade la sua opera è stato forse l’atto critico maggiore e più impegnativo con cui ho dovuto confrontarmi sin qui. E anche l’onore più grande.

Ritiene che ci siano delle misure adatte per dare un po’ più di visibilità a una disciplina spesso messa in disparte come la poesia?  

No, non credo ci siano “misure adatte”. La scuola può far molto, e spesso lo fa (ma altrettanto spesso invece dimentica la poesia, o la massacra con esagerati tecnicismi); i media potrebbero far molto ma si preoccupano di altre cose; ma forse è soprattutto la pressione del mondo contemporaneo che può aiutarci. Sembra un paradosso? Eppure ciò che emargina la poesia emargina anche la nostra vita profonda, la nostra realtà psichica e sentimentale, il nostro essere. Può darsi dunque che proprio nell’esilio la poesia possa trovare l’attenzione che merita e la lettura fraterna che chiede. Poi ci sono gli editori, si capisce. La Marcos y Marcos, con cui collaboro da quasi trent’anni, ha da poco creato una nuova collana di poesia, «Le ali». Mi sembra un bel segnale in controtendenza. Vorrà dire qualcosa.

Quali sono i suoi autori di riferimento?

Oltre ai già nominati, dovrei almeno citare Vittorio Sereni, ovviamente Montale e dietro di lui Camillo Sbarbaro, Pascoli e Leopardi. E, lontano e vicinissimo, il grande modello dantesco. Tra i più o meno coetanei, Francesco Scarabicchi, Franco Buffoni, Milo De Angelis, Antonella Anedda e Umberto Fiori. Poi moltissimi stranieri, perché non credo sia più possibile, se mai lo è stato, definirsi solo su scala nazionale. E moltissimi prosatori.

Cosa sta preparando attualmente?

Non so ancora se e cosa sto «preparando»; lavoro molto sul piano critico, e quanto alla poesia lascio per il momento che la scrittura mi porti non so bene dove. Mi sembra che ciò che ho scritto dopo la pubblicazione di Argéman mi stia conducendo altrove. Ma si vedrà, senza fretta.

Può commentare la poesia inedita presentata?

Questa poesia nasce da un avvenimento reale: a casa di mia figlia, tempo fa, un passero era rimasto imprigionato in una vecchia griglia di ventilazione, dove chissà come si era intrufolato. Non avevamo capito, il mattino prima di uscire, di cosa si trattasse, cosa fosse il rumore che si sentiva lassù sul muro. La sera, rincasando, tutto fu più chiaro; il passero era morto, forse di crepacuore nel sentirsi prigioniero, e noi faticammo a lungo per smontare la grata dietro la quale si vedeva il piccolo corpo morto. Saba e Rosa Luxembourg ci hanno insegnato a cogliere nel dolore animale la manifestazione più estrema e lancinante del dolore umano; così anche in questo passero ho creduto di leggere qualcosa del genere. In questo senso credo di aver sentito come appropriata la parola «migrante» che appare verso la fine.

***

Deposizione del passero

Curiosità, vento, richiamo del caldo?

Ma da quale fessura o interstizio un passero
sarà entrato gioioso planando,
e poi sceso per tubature e vuoti d’aria
fino alla piccola grata alta sul muro
ultimo nido non dolce
strettoia di luce paura di gabbia
sfiatatoio terminale tortura
freddo tempo rappreso
dove sarebbe rimasto frenetico
a lungo sbattendo le inutili ali
in oscuro supplizio
d’infarto,
per ricomporsi infine
sul tardi nella perfezione della morte
immobile ormai come in un loculo
da cui, smurata la grata, l’avremmo
a sera calante estratto e deposto
come timorosi di svegliarlo,
quel batuffolo ancora quasi tiepido,
calcinato migrante,
in un sacco di plastica nero? 

Fabio Pusterla

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